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Tre ricordi di Sisto dalla Palma
TRE RICORDI DI SISTO DALLA PALMA
Sisto Dalla Palma se ne è andato. Una breve malattia che sembrava banale ha fiaccato sorprendentemente una tempra di straordinario vigore che ha profuso senza risparmio per decenni intelligenza, energia, idee, genialità, passione nel mondo della ricerca e della formazione universitaria e nel mondo delle istituzioni della cultura teatrale.
Mario Apollonio fu il suo maestro. Fu lui ad aprirgli gli orizzonti del teatro, a far slittare la sua vocazione alla scrittura e alla fruizione solitaria della letteratura verso una più profonda vocazione alla parola partecipata della drammaturgia, che si gioca nella pienezza della presenza del corpo e del coro e nella concretezza del tempo e dello spazio dell’evento.
Fu Apollonio, ormai in procinto di ritirarsi dalla mischia, dopo gli incomponibili dissensi con quel Piccolo Teatro alla cui fondazione aveva partecipato redigendo la famosa lettera programmatica, a alimentare in Sisto il desiderio di essere studioso e operatore insieme, a combattere una battaglia capace di giocarsi nell’intelletto e nella prassi.
Quale drammaturgia? Non la routine o il mestiere del teatro, non la merce o lo svago digestivo, marginale nella città, non il rito mondano o sofisticato, non l’epidermica stimolazione della sensualità, ma la convocazione della comunità intorno allo spessore di senso del segno che si invera nel corpo e nel coro, che identifica il gruppo nelle sue fondazioni, nel suo progetto, nella sua utopia.
E le istanze della coralità furono la grande passione di Sisto, ben prima che la sociologia e l’antropologia della cultura tematizzassero le ragioni del pubblico: era l’idea dell’animarsi della vita collettiva, dell’artista che parla a un gruppo, ma anche risponde a un gruppo in un rapporto stringente che il teatro pone in essere più di ogni altra forma artistica, un movimento circolare, un dialogo “tra una vasta platea, e dei protagonisti, tra un coro e delle singolarità più autenticamente creatrici, che non si costituiscono mai come figure isolate, ma che sono piuttosto entità concretamente calate nel flusso della vicenda umana”.
Essere coro significa “non solo essere all’interno del gruppo come individualità creatrici solitarie, ma come coscienze capaci di un moto di condivisione collettiva, coinvolti in un processo di continua identificazione che può trascendere le singole determinatezze individuali e farsi rappresentazione universale”.
Fu questo il perno intorno a cui ruotarono le sue lezioni che affascinarono generazioni di studenti all’Università Cattolica di Milano, la sua Università, e all’Università di Pavia, dove ricoprì la cattedra di Storia del Teatro, intorno ai tragici greci, a Dante, a Manzoni, a Pirandello, a Beckett, agli artisti del teatro di ricerca e di sperimentazione.
Fu questo il punto di avvio della grande avventura del CRT: il Centro di Ricerca per il Teatro che Sisto Dalla Palma fondò a Milano nel 1974 e che fece scoprire a una scena ancora avvitata sul teatro borghese o sul teatro nazional-popolare, il grande teatro di ricerca internazionale: in serate indimenticabili al CRT incontrammo Jerzy Grotowski e Tadeusz Kantor, Bob Wilson e Julian Beck, Richard Foreman, Meredith Monk il Bread and Puppet, l’Odin Teatret. Sisto non ospitava artisti, ma li ispirava, stabiliva con loro relazioni creative intense.
Erano i maestri, ma anche i giovani talenti di cui egli fu attento e perspicace scopritore e valorizzatore: Sandro Lombardi e Federico Tiezzi, Gabriele Vacis, Daniele e Cesare Lievi, Romeo Castellucci, Silvio Castiglioni e tanti tanti altri fino alle ultime generazioni: Mimmo Sorrentino, Antonio Tarantino e Emma Dante di cui ha prodotto gli spettacoli più belli e della quale diceva con ammirazione: “E’un’artista, una donna ancora capace di indignarsi”.
Indignazione e amarezza, grande amarezza accompagnò questi ultimi suoi anni in cui pure non rinunciò mai a combattere con il coraggio, lo sprezzo dell’isolamento che sempre ebbe: un leone. Lui che visse e animò gli anni belli e vivaci della cultura guardava con inquietudine al rischio di ripiegamento autoreferenziale dei giovani artisti del teatro e alla epidermica creatività delle forme della moda, soffriva la deriva della cultura che mortifica questi nostri anni.
Non era molto ampia, secondo i canoni accademici, la sua produzione scientifica, ma i suoi saggi sul gioco e il teatro nell’orizzonte simbolico, sul rito e sulla festa, sul teatro del sacro, sulla storia delle istituzioni teatrali, sul coro hanno fatto scuola e i suoi attesi interventi a ogni inizio stagione e i suoi pezzi sui programmi di sala erano sempre incisivi e illuminanti.
Molti per fortuna sono raccolti. E le sue drammaturgie sono state dei saggi scritti sulla di scena: Sì come luce…, La notte dei re, Mattutino…
Fino all’ultimo non abbandonò la trincea. Perché Sisto Dalla Palma era anche uomo di potere. La vocazione alla drammaturgia si intrecciò fin dall’inizio con la sua passione politica e civile e con la sua autentica fede cristiana, radicata nella tradizione della sua terra veneta. Duro, battagliero, polemico, persuasivo e persino trascinante, non volle mai essere profeta disarmato, come un po’ era stato il suo e nostro grande maestro Mario Apollonio. Fu in Cattolica negli anni giovanili tra i fondatori della Base, l’ala sinistra della Democrazia Cristiana di Giovanni Marcora, in quel vivaio di ingegni, compagni di collegio che riuniva Ciriaco e Enrico De Mita, Nino Andreatta, Misasi, Gerardo Bianco. Ricoprì incarichi di prestigio: presidente del Piccolo Teatro, della Fonit Cetra,dell’Accademia di Belle Arti, segretario generale della Biennale di Venezia originale, spesso furiosamente divergente, sempre fertile di idee geniali, di rapide lucide intuizioni risolutive.
Chi gli rimproverava il brutto carattere sapeva che questo era il prezzo di chi aveva carattere. Gli anni lo avevano addolcito. La perdita un anno fa della amata moglie Maria, conosciuta negli anni universitari e con cui aveva celebrato da poco i cinquant’anni di matrimonio, in una bella cerimonia e in una bella festa, aveva reso più intensa e più aperta la sua ricca umanità.
Quanti di noi hanno goduto le lunghe giornate di convegno, le serate di cultura e di convivialità organizzate da Sisto Dalla Palma al CRT! Ricche di umorismo, di arguzia, di passione, di intuizione, di memorie, di generosità come la memorabile sessione su Grotowski di un paio di anni fa: in duetto con l’ultraottantenne Ludwig Flaszen. Inchiodarono per ore un folto pubblico, con tanti giovani.
La sofferenza di queste settimane ha assottigliato il suo corpo imponente e scavato il suo volto, la rigidità della morte non ha tolto quella severità e quella impressione di forza magnetica che incute rispetto.
Un passaggio d’epoca. Speriamo che il suo CRT continui all’altezza del suo passato e dei tempi nuovi.
Grazie Sisto. Ti vogliamo bene
Annamaria Cascetta
Sisto, non potevi scegliere giorno migliore per andartene.
Il 2/01/2011. Sei morto all’alba del giorno dopo Capodanno.
Al culmine dei famosi Dodici Giorni, il periodo che va da Natale all’Epifania, il periodo di follia, di mondo alla rovescia, di viaggi e di ricerca delle stelle, di sapienza e di magia, di tradizioni popolari e messaggio rivoluzionario cristiano, di travestimenti e maschere, di inizio e fine, di rigenerazione del tempo, degli uomini, della società, del cosmo.
Nel Medioevo il Primo dell’Anno era la Festa dei Folli. Era la festa degli studenti adolescenti, giovani chierici che si fingevano pazzi e officiavano all’interno delle cattedrali liturgie carnevalesche: il loro incenso puzzava perché bruciavano suole vecchie, indossavano i paramenti liturgici al contrario, non cantavano il gregoriano: ragliavano. Si mascheravano con maschere orrende e bestiali. Danzavano e correvano per le navate lanciando spazzatura ai fedeli. Battezzavano i malcapitati con gavettoni di acqua sporca non ben identificata. Come era possibile che le autorità permettessero questi osceni baccanali nei tempi e negli spazi più sacri della cristianità?
La risposta è la tua vita. La tua parola. La tua opera. Una febbrile ricerca di rigenerazione della società e degli uomini attraverso non il teatro, ma, la festa, il sovvertimento, lo scarto, la divergenza, la communitas, la maschera - ovvero l’altro teatro -, il rito, la performance, il corpo, la follia.
Tutto questo si fece carne e si manifestò a Milano la vigilia dell’Epifania di tanti anni fa, con una delle tue più belle drammaturgie festive: la Notte dei Re. Volevi rilanciare l’antico corteo dei Magi, creato dai Visconti nel 1336, e ormai ridotto a folcloristica parata circense. Milano conservava le reliquie dei Magi poi sottratte dall’imperatore Federico I Barbarossa e spostate a Colonia. Erano custodite nella basilica di Sant’Eustorgio e dal suo sagrato partiva il tuo viaggio verso la luce della Natività.
Quando iniziò la tua sacra rappresentazione cominciò a nevicare. Entrammo nel buio e silenzioso chiostro, quello che ora ospita il Museo diocesano di arte sacra. Il ricordo più vivo che mi è rimasto delle diverse scene allestite nelle sale e all’aperto è il rosso violento della reggia di Erode. Ricordo un satrapo circondato da ballerine, cortigiani, servi e sgherri che ricevono sghignazzando gli illustri dotti, astronomi e sapienti giunti dal lontano Oriente alla ricerca di... Di un bambino.
La festa orgiastica si muta in tumulto, in rabbia, in furore, quando Erode viene sapere che quel bambino è il re dei re. E l’orgia del potere, il rosso della porpora e le fontane di vino si trasformavano di colpo in fiumi di sangue, ombre rosse a figurare la strage degli innocenti, degli oppressi, degli ultimi. Smascheravi così la rimozione buonista del nostro Natale consumistico. Svelavi il nodo problematico del nostro esistere, il legame tra la violenza e il sacro, la cristallizzazione del potere, di qualsiasi genere sia – politico, economico, teatrale, culturale, accademico -, la sua pulsione di morte, lo sterminio della vita per pura invidia.
Fuori dalla città, fuori dal palazzo, fuori dai giochi terrificanti delle stanze del potere, immaginavi la liberazione, la luce, la festa. Uscimmo in quello che ci apparve, dopo l’esperienza claustrofobica di Erode, l’immenso parco delle Basiliche. Il prato era già coperto di immacolata neve. Il cielo venne di colpo attraversato dai lampi e dal fulgore dei fuochi artificiali. I pensieri degli astanti danzavano con i fiocchi volteggianti di neve, mentre un concerto di campane elettroniche annunciava la nascita di una nuova umanità.
L’hai fatto, l’hai detto mille volte e l’hai scritto. Ti cito. La festa, la scena rituale è l’unica “capace di attivare la più profonda delle dimensioni gruppali in cui vivere il desiderio in modo unitario, continuamente radicandolo nel sacro da una parte e nella natura dall’altra”. La scena rituale è “tanto vicina alle fonti dell’essere da diventarne il luogo della rivelazione”- La scena rituale è “anche la scena capace di mettere in crisi profondamente l’ordine costituito e di riportarlo ritualmente a un confronto drammatico colle origini della creatività. La scena popolare è stata per questo sentita come pericolosa, perché attraverso di essa si è espresso ripetutamente anche il momento della trasgressione e della rivolta”. “Nelle feste di capodanno, nei cicli che ritualizzavano la follia, tutto rinasceva in nome del sacro”. “L’infrazione delle regole, il rovesciamento dell’ordine, il riemergere della follia” consentivano - e consentono - “di vivere una esperienza di liberazione e di ricominciamento assoluto in una dimensione fortemente partecipata”.
Grazie, Sisto, perché hai portato in Italia i Tre Re Magi del teatro, Barba, Grotowski, Kantor. Grazie perché hai portato una lunga carovana di artisti, studiosi, critici, studenti, cittadini, spettatori, alla ricerca e alla scoperta di vie nuove, di terre sconosciute, di orizzonti infuocati. Grazie per tutto quello che ci hai donato, l’oro della tua bocca, la mirra del tuo carattere, l’incenso della tua creatività.
La stella che ci guidava ora è scomparsa.
Ma, se usciamo dal gelido e mortale teatro dei poteri e dei rapporti cristallizzati, riapparirà più fulgida di prima.
Una stella cometa non sta bene quaggiù.
Sta bene lassù.
Claudio Bernardi
Per me il CRT è due cose: il teatro dell’Arte prima della ristrutturazione e “Il Professore”.
La prima: il teatro dell’Arte prima della ristrutturazione. Era bellissimo. Era tutto nero, scrostato. La galleria era inagibile, quindi c’era un copriletto di polvere dappertutto. Intorno alla platea c’era quel portico dove non arrivava la voce, ma in cui lo spettatore poteva nascondersi. Ma soprattutto c’era il palcoscenico, rotondo, anche lui con una specie di portico intorno e, sopra, il graticcio, altissimo. Sembrava di stare dentro ad uno di quei trompe l’oeil prospettici settecenteschi che ti rubano lo sguardo e lo proiettano direttamente in paradiso. Il teatro dell’Arte prima della ristrutturazione, nel mio ricordo, diventa qualcosa di simile alla Bouffes du Nord di Peter Brook, che magari non c’entra niente, ma si sa, la memoria combina e confonde. Al Teatro dell’Arte prima della ristrutturazione io, per esempio, colloco “Elementi di struttura del sentimento”, lo spettacolo del Teatro Settimo tratto da “Le affinità elettive” di Goethe. Fu uno spettacolo molto fortunato, replicato in centinaia di teatri diversi. Ma se io lo ripenso, vent’anni dopo, me lo vedo sul palcoscenico del teatro dell’arte. Perché quella profondità di campo, quella magia di proporzioni tra scena e platea la trovi solo in certi vecchi teatri all’italiana e poi, chissà perchè, al teatro dell’Arte. Era una specie di labirinto. Il back-stage erano le segrete di un castello, con l’odore che si sente in quelle cantine antiche dove invecchia il Brunello di Montalcino. Dietro al palcoscenico io mi ricordo pareti di mattoni e volte a crociera, alte. Era uno spazio in cui perdersi. Nel 1987 ci abitai per un mese. Provavamo “Riso amaro”, uno spettacolo tratto dal film omonimo di Giuseppe De Santis. Lo spettacolo era co-prodotto dal Teatro Settimo e dal CRT. In quegli anni il Teatro Settimo era una sorta di tribù che si installava nei teatri costringendoli a prestazioni impossibili. Arrivavamo e tiravamo corde sui palchetti e in galleria, facevamo piovere acqua sul palcoscenico e piume in platea… Al teatro dell’Arte, per provare “Riso amaro”, installammo tanto di cucina e spesso ci si fermava a dormire nei suoi anfratti misteriosi. Era maggio e fuori c’era il parco, pioveva spesso, ma quando smetteva uscivamo dal nero delle prove a respirare. Il Teatro dell’Arte si lasciò occupare docilmente, era un luogo ideale per preparare uno spettacolo, era uno spazio da vivere. Sono così affezionato al ricordo del Teatro Dell’Arte perché ci ho “abitato”, ma anche perché ci ho visto molti spettacoli belli ed importanti. Il Teatro dell’Arte prima della ristrutturazione è uno dei simboli del teatro degli anni ottanta. Gli anni ottanta del novecento, a pensarci adesso, sembrano la fine di un secolo. Il novecento è il secolo breve. Infatti a me sembra che sia finito intorno al 1989. Nel 1989 sono successe cose un po’ più importanti, ma la chiusura del Teatro dell’Arte, è un minuscolo simbolo della fine di un’epoca. Infatti, poi, gli anni novanta, più che l’ultimo decennio del secolo scorso, sembrano il primo del nuovo millennio. Sarà che li guardiamo ancora da molto vicino, ma gli anni novanta avevano voglia di ricominciare, mentre gli anni ottanta avevano addosso una sorta di rassegnazione della fine. Dopo la seconda guerra mondiale lo sgomento era talmente forte che sembrava impossibile immaginare un futuro. Un grande filosofo disse che nel ventesimo secolo sono accadute cose in seguito alle quali neanche i sopravvissuti sono riusciti a sopravvivere. Sembrava tutto finito, non c’era più niente da fare, persino la storia era finita. Il teatro ha interpretato bene questo sentimento: il deserto in cui si muovevano i personaggi di Beckett non era fatto di sabbia, era un deserto di cenere. La cenere che hanno lasciato i forni di Auschwitz e l’atomica di Hiroshima. In “Giorni felici” Hamm lo dice esplicitamente: - non c’è più niente, si è incenerito tutto, anche il bene più prezioso, il tempo -. Nel 1989, quando cade il muro di Berlino, alla cenere si mischiano macerie, da quel momento si riesce a trovare qualcosa nella cenere. E con quello che si trova, con frammenti di case, di vecchi palazzi, si può ricominciare a costruire. Certo che è tutto da rifare, però ci si può provare. Gli anni novanta sono gli anni in cui torna ad esistere il bene più prezioso: il tempo, e quindi si riesce a pensare di nuovo il futuro, sono gli anni in cui si rimette in moto la storia. E dato che il tempo trova la sua incarnazione nel racconto: gli anni novanta sono gli anni in cui si riprende a raccontare. Ma prima, negli anni ottanta, tutto questo era impossibile. La ricostruzione dopo la seconda guerra mondiale, che nell’architettura e nel cinema è cominciata nel 1945, nel teatro di ricerca è cominciata negli anni novanta. Fino agli anni ottanta il teatro si è incaricato del grande pianto rituale sulla catastrofe della seconda guerra mondiale, perlomeno quello che in Italia indichiamo come teatro di ricerca, che sta poi nel nome del CRT: Centro Ricerca Teatrale. Anche se, come sempre in questi passaggi epocali, erano molti quelli che, proprio negli anni ottanta, avevano cominciato a mettere fuori la testa dalla cenere per ricomiciare a raccontare. Comunque i due grandi spettacoli che hanno chiuso il dopoguerra io li ho visti al Teatro dell’Arte: “Novecento e mille” di Leo De Berardinis e “Le Troiane” di Thierry Salmon. “Novecento e mille” era un catalogo dei grandi eventi del novecento, dei sogni e delle passioni di un secolo. Era una sequenza di “clip”, di frammenti di Pirandello e Majakowskij che si frantumavano nel fremito di bandiere rosse e inni rivoluzionari. Che detto così può far pensare ad uno spettacolo sontuoso, ricco di effetti e di sons et lumiere. E a suo modo lo era. Solo che Leo De Berardinis annegava tutto in una luce fioca, sommessa. Era una cosa semplice ma geniale. Si spegnevano le luci di sala e si piombava nelle tenebre. C’erano molti proiettori sul palcoscenico, ma erano tenuti al minimo, al dieci o al venti per cento della loro potenza. All’inizio non ci facevi caso, pensavi che lo spettacolo cominciava con una luce fioca e poi si sarebbe illuminato… Niente da fare, lo spettacolo andava avanti sparando i suoi frammenti di scena, e tu continuavi a strizzare gli occhi per vedere qualcosa. Poi, lentamente, l’occhio si abituava alla bassa intensità, e cominciavi a renderti conto che c’erano effetti luminosi continui, ricchi e lancinanti, le luci cambiavano colore, diventava tutto rosso o tutto verde, ma sempre praticamente al buio. Era qualcosa che ti risucchiava in un mondo parallelo. Un mondo in cui bisognava allertare i sensi: la vista, naturalmente, ma anche l’udito. Perché in quella luce sommessa gli attori parlavano pianissimo, c’era un momento straordinario in cui anziché espirare l’aria per parlare, inspiravano… Sale la nebbia sui prati bianchi, come i cipressi sui camposanti… dice una vecchia canzone di De Andrè. Ecco: Leo De berardinis ti portava in quel luogo, non tanto nei camposanti, ma dentro alla nebbia che sale. E il Teatro dell’Arte ci stava alla grande a quel gioco di rallentamento, di abbassamento del volume delle funzioni vitali che amplificava la percezione e la consapevolezza. Le clip che componevano lo spettacolo, in quella luce da camposanto, soffocavano nell’amarezza e del tradimento tutte le illusioni novecentesche. La cosa sconvolgente, poi, veniva alla fine del primo atto, quando si riaccendevano le luci di sala e tutto il pubblico metteva la mano davanti agli occhi per progettersi, come se gli avessero puntato contro la lampada per l’interrogatorio. Di solito capita il contrario: le luci di sala sembrano fioche di fronte al bagliore del palcoscenico. “Novecento e mille” aveva anche delle trovate comiche geniali. Una per tutte: Leo De Berardinis vestito da Totò che dice la famosa battuta dei De Rege: - vieni avanti, cretino! – E dalla quinta esce Einstein che recita, come facesse fatica a ricordarla, la formula magica: - E… Uguale… Emme, ci… Al quadrato… - Applauso. Una gag che fa capire quanto nel deserto di cenere del novecento si fosse perduto ogni significato, ogni senso. Fino agli anni ottanta non c’erano più “significati”, solo “significanti” che si scambiavano tra loro in un girotondo che non lambiva mai la realtà, sembrava che il mondo fosse andato in pezzi. Impossibile ricucire un qualche “senso” nell’esplosione di frammenti. Gli anni ottanta di Reagan e della signora Tatcher erano un grande “Blob” post-moderno fatto di De Rege, Pirandello ed Einstein che andava consumato sul momento, senza pretendere che potesse esistere un prima e un dopo, senza che si potesse pensare di costruire uno straccio di “discorso”, organizzare relazioni, produrre senso: tuttalpiù una risata amara.
“Le Troiane” di Thierry Salmon fu l’ultimo spettacolo del Teatro dell’Arte, che poi chiuse per essere ristrutturato. Era un lungo, autentico pianto rituale. In scena solo donne, tante, abiti laceri, scuri e scarpe col tacco chiare. Per più di un’ora e mezza cantavano musiche composte da Giovanna Marini e parlavano in greco antico. L’incomprensibilità del testo era una ricchezza da cui filtrava qualcosa che non aveva a che fare con il senso compiuto di un discorso, ma direttamente con i sentimenti. Mi ha sempre colpito l’inadeguatezza degli strumenti formali che ci sono rimasti di fronte alle tragedie. Ormai siamo abituati ad applaudire persino ai funerali. Thierry Salmon, con il suo spettacolo, ci riportava ad una ritualità dimenticata: ai funerali si canta! E questo canto risuonava in una caverna profonda, immensa che era il teatro dell’Arte. I rapporti per l’ultimo spettacolo erano rovesciati: il pubblico stava sul palcoscenico e l’azione si svolgeva in platea, con una grande scala che la collegava alla galleria. Lo spazio era un grembo oscuro, spaventoso. La scala era ripidissima e metteva in grande difficoltà le attrici che dovevano salire e scendere con i loro tacchi a spillo: bastava questo a darti un senso di precarietà assoluto. Il grande grembo che era il teatro dell’Arte visto dal palcoscenico era illuminato solo nella zona prospiciente il pubblico, il resto si perdeva in un buio infinito. Quando Astianatte, il figlio di Ettore, interpretato da un’attrice che sembrava una bambina, veniva chiuso sotto le assi del pavimento, era il novecento che stavamo seppellendo. Io non ricordo più se Ecuba parlava subito dopo la sepoltura. Non mi ricordo se recitava quel monologo straziante in cui rimprovera il suo nipotino Astianatte di essere morto prima di lei. Quello che ricordo è Maria Grazia Mandruzzato, l’attrice che interpretava Ecuba, che si batteva al petto e ingaggiava una danza che, tra le cose che ho visto io, è quella che più si avvicina al sentimento tragico.
Per me il CRT è due cose: il teatro dell’Arte prima della ristrutturazione e “Il Professore”.
Il Professore è alto due metri, ha occhiali rotondi con la montatura nera e di scarpe porterà il 49 o il 50. Ha più o meno l’età di Grotowski, di Eugenio Barba, di Carmelo Bene, di Ronconi. Una generazione di maestri che durante la seconda guerra mondiale erano ragazzini. Gente che aveva bisogno di piedi grandi come racchette per camminare nel deserto di cenere del dopoguerra. E loro ci hanno viaggiato in lungo e in largo, cantandolo. Dopo il debutto di “Riso amaro”, Il Professore mi invitò a cena in un ristorante vicino alla Cattolica. Mi parlò a lungo dei maestri, delle loro gesta e anche dei contrasti che lui aveva avuto con loro, perché avevano certi caratterini... Alla fine mi disse, con il suo accento veneto che quando lo ascolti ti sembra di stare in un libro di Meneghello: - io quest’anno ho prodotto, oltre al tuo, altri due spettacoli. Tre spettacoli di gente della tua età. Sai che non ne ho capito neanche uno? – Non lo disse malevolmente. Lo disse come un padre deluso, comprensivo ma inappagato. Il che, dopo due ore di racconti sulla magnificenza dei maestri, a me suonò più o meno così: noi che abbiamo visto la guerra sì che siamo forti, voi che siete cresciuti a nutella ce la mettete tutta, ma in fondo siete un po’ una generazione di mezze seghe. Sono passati quasi diciotto anni da quella cena nel ristorante vicino alla Cattolica, ma me lo ricordo come se fosse adesso, perché io sono stato sempre molto curioso di questa generazione di padri che sono andati in guerra da bambini, ma erano già fortissimi, come Achille che a quindici anni era già “la bestia”. Quei grandi uomini e le loro avventure hanno nutrito la mia infanzia e costruito il mio immaginario, li avevo sempre ammirati e perfino un po’ temuti. Uno spettacolo su “Riso amaro” era un omaggio, era un ponte che volevo gettare tra le generazioni… E lui non aveva capito. Un’altra volta ci ritrovammo nel foyer di un teatro a chiacchierare dopo che avevamo visto uno spettacolo brutto. Lui disse che di spettacoli grandi come quelli dei maestri non se vedono più. Erano passati pochi mesi da “Le Troiane” di Thierry Salmon, che secondo me era un capolavoro assoluto. Glielo dissi. E lui per un attimo guardò dentro alle lenti dei suoi occhiali neri, poi disse: - ah, si. - Tutto qui. – Ah, sì. - Non una parola di più. Ma dài, come si fa a crescere sani con dei padri del genere… Se siam venuti su mezze seghe, sarà un po’ anche colpa loro, o no? I figli bisogna incoraggiarli, rassicurarli, ogni tanto. La ruvidezza dei nostri padri, che per tanto tempo ho scambiato per insensibilità, narcisismo, perfino cinismo, e che certamente era un po’ di tutte queste cose, la ruvidezza dei nostri padri col tempo si è stemperata in un sentimento di comprensione per gli ultimi “severi”, per l’ultima generazione che ha visto il mondo prima del deserto di cenere, prima che scomparissero le lucciole, come diceva Pasolini . Io sono sempre stato curioso di quando c’erano ancora le lucciole, di com’era il nostro pianeta prima del consumismo. Mi sono sempre piaciuti gli uomini antichi che immagino lo popolassero, e di cui la generazione dei padri custodisce la memoria genetica. Per questo ho fatto spettacoli dai film neorealisti, dai romanzi di Meneghello, per questo ho raccontato del Vajont e di Olivetti, miti della generazione dei padri. Per gettare ponti. Così per tanto tempo mi ha sconcertato quella freddezza da parte di molti di loro. Però a ripensarci adesso, adesso che il CRT compie trent’anni, una cosa devo riconoscerla: a Il Professore e a certi filibustieri come lui, che poi, per fortuna, non sono neanche tanti, a questi personaggi che ti fanno le pulci su tutto, che pretendono molto e che alla fine pagano poco e sempre molto in ritardo, io un po’ di gratitudine gliela devo. Perché qualcosa me l’hanno dato. Un’attenzione ruvida, sempre “interessata”, ma concreta, che alla fine mi ha spinto a raccontare le storie che ho raccontato, magari per fargliela vedere. E col tempo ho anche imparato che la generazione dei padri, nonostante lo abbia sempre negato, ha fatto pedagogia, in quel loro modo burbero, e sempre vergognandosene un po’, ma l’hanno fatta, eccome. Il Professore, per esempio non ha mai smesso di guardare alle generazioni che stanno arrivando. Infatti è già un po’ che si sta occupando dei nipoti. Grotowski diceva che voleva essere il nonno di chi veniva dopo di lui. Con i nonni il rapporto è più disteso, non ci sono i conflitti, la competizione che c’è tra padri e figli. Emma Dante mi ha detto che con Il Professore ha parlato a lungo, che le è stato vicino, che non l’ha mai sentito semplicemente come un “produttore”, ma come qualcuno che cercava di capire, con passione, profondamente, i misteri di questo nostro lavoro pazzesco. Per i trent’anni del CRT, vorrei invitare a cena Il Professore. Anzi, lo faccio subito: che ne dici, professore? Questa volta ti invito io, potremmo andare in quel ristorante vicino alla Cattolica, se c’è ancora. Però non voglio che mi parli dei maestri. Questa volta mi piacerebbe che mi parlassi delle tue ultime produzioni, dei tuoi nipoti, e degli spettacoli che hai in mente per i prossimi trent’anni.
Gabriele Vacis
(Testo scritto nel 2004, in occasione del trentennale del CRT)