di Francesco Pessi *
Si propone qui una prospettiva analitica su quanto avviene in Ecuador in queste ore, con l’impressionante escalation di violenza civile nelle strade e un confronto aperto tra narcos e forze dell’ordine.
Se è lecito, come buona parte della stampa mette in luce all’indomani dei ventuno episodi di ‘terrorismo’ avvenuti tra martedì e mercoledì, descrivere l’Ecuador come Paese fino a poco tempo fa estraneo alla violenza strutturale e sostanzialmente gregario nella rotta del narcotraffico sudamericano, è altrettanto importante sottolineare che frammentazione sociale, corruttela e fallimento nell’adempimento del patto sociale da parte delle istituzioni sono fenomeni di lungo corso. Sono cioè fenomeni radicati in un cronico malfunzionamento dello Stato, che consiste poi in un deficit di democrazia.
Il sequestro di centotrenta poliziotti da parte dei narcotrafficanti, l’esplosione di un ordigno di fronte all’abitazione di un membro della Corte di Giustizia ecuadoriana, i ventuno assalti a mano armata a edifici governativi o mediatici delineano il caos generatosi nel Paese all’indomani di una fuga di massa dal carcere di Riobamba (trentadue evasi) che ha spinto la Presidenza a dichiarare lo stato di emergenza.
La transizione da Paese pacifico a violento verificatasi nell’arco degli ultimi cinque anni, con un 2023 annus horribilis nel numero di morti violente (ventitré omicidi al giorno, quaranta ogni centomila abitanti) non è dunque da spiegarsi con l’improvvisa ritirata delle istituzioni fronte al ricatto dell’economia del narcotraffico, quanto piuttosto l’incancrenirsi di un fenomeno, quello della violenza legata al traffico di grossa taglia, già in nuce nella fragile democrazia ecuadoriana, causa (s)favorevoli concomitanze che hanno reso l’Ecuador piattaforma strategica per i grandi cartelli della cocaina messicani (Sinaloa e Jalisco Nueva Generación i due principali).
A differenza dei vicini Perù, Colombia e Bolivia, l’Ecuador non è un Paese produttore (di cocaina che era e rimane il principale business dei cartelli, insieme a quella di oppiacei), ma dispone di una ben funzionante rete infrastrutturale (autostrade e porti), di un’economia dollarizzata e quindi funzionale al riciclaggio, e di un florido commercio. La rotta commerciale collega infatti la costa pacifica (Guayaquil a sud, Esmeralda a nord) con i principali acquirenti occidentali (minimo il consumo locale: siamo sempre noi europei e gli Stati Uniti il motore di questa economia), in particolare con il Belgio, che con il Paese andino costituisce dal 2022 una zona di libero scambio. Eppure, fino circa al 2018, i ventidue gruppi narcos equiparati a organizzazioni terroristiche dal presidente della repubblica Daniel Noboa erano assimilabili a bande di strada o di quartiere, dedite al microcrimine (ricettazione ecc.), e cioè prive di sostanziale potere politico. Cosa è avvenuto?
A seguito del collasso statale e monetario venezuelano e al regime sanzionatorio che grava su Caracas dal 2018, che ha reso più costoso il riciclo del denaro (la moneta venezuelana non vale quasi nulla) e difficoltoso il transito della merce, i cartelli messicani hanno individuato nel gregario ecuadoriano un terreno vergine per il proprio commercio. A ciò si sommi la politica di sostanziale lassismo nei confronti del narcotraffico da parte delle amministrazioni socialiste di Rafael Correa e del suo successore Lenín Moreno.
Da qui l’upgrade, consumatosi nel giro di circa sei anni, di Lobos, Choneros e compagni da bande di quartiere a braccio armato, con tanto di delega amministrativa, dei trafficanti messicani; da qui, e dall’appalto che lo Stato ha concesso alle organizzazioni criminali nella fornitura di servizi alla popolazione, in un Paese di diciotto milioni di anime ma che è secondo nel continente per numero di migranti che bussano alla porta del confine statunitense. La dichiarazione dello stato di emergenza ha infatti comportato innanzitutto la sostituzione delle autorità di pubblica sicurezza (la polizia) con i quadri dell’esercito. Noboa, guardiano delle istituzioni, è cosciente che una parte di esse collabora attivamente con i cartelli: si calcola che circa un quarto del sistema penitenziario ecuadoriano sia controllato in maniera più o meno diretta dalla malavita, che decide chi è cosa debba entrare e uscire da essi. E infatti nella notte tra lunedì e martedì, trentadue persone sono evase dal carcere di Riobamba, incluso Fabricio Colòn Pico, vertice dei Lobos; inoltre nessuno sa spiegare come l’altro nome eccellente, José Adolfo Marcias Villamar, sia stato sostituito la scorsa domenica in cella da un sosia, subito prima che venisse trasferito a un carcere di massima sicurezza.
Se la crisi attuale viene da lontano, l’amministrazione neoliberista di Noboa rischia però di affrontarla con metodo altrettanto vecchio e fallimentare, cioè con la tattica del ‘pugno duro’ che fallì sia in Colombia negli anni novanta che in Messico nei duemila; tattica al momento motivata dall’ondata di panico che si è diffusa tra la popolazione e dai duecento milioni di dollari annui che gli Stati Uniti, già dettisi “pronti a intervenire”, investono annualmente nelle forze armate di Quito.
Daniel Noboa, trentaquattrenne proveniente da una delle più abbienti famiglie del Paese è stato eletto in ottobre. Tra le misure proposte per la lotta alla criminalità organizzata dal suo governo vi è l’estradizione negli Stati Uniti; si confronti questa misura con la stima summenzionata che un quarto delle carceri siano de facto ‘asili’ delle organizzazioni criminali.
É tuttavia lecito domandarsi se la linea dura rappresenti la panacea per i mali che affliggono l’Ecuador: i tredici uomini che martedì hanno fatto irruzione nella redazione televisiva di TC in diretta avevano tra i sedici e i venticinque anni. Un dato che, oltre alla geopolitica del narcotraffico, interroga direttamente lo Stato ecuadoriano (sistema educativo e assistenziale: molti giovani provengono da barrios poveri e da famiglie di tossicodipendenti; ma non diciamo nulla di nuovo) e la sua performance nella tutela del cittadino.
Per concludere: il deficit democratico ecuadoriano viene da lontano; assistiamo in queste ore al sintomo di tale fenomeno; mentre l’esercito assicura la vita dei cittadini, è doveroso elaborare una riflessione di lungo corso, onde evitare il rischio di una frattura permanente i cui esiti sono ampiamente prevedibili, scorrendo la storia recente dei vicini di Quito. Al momento, i narcos hanno comunicato via stampa che «se è una guerra che Il Presidente vuole, guerra avrà».
* Studente della Laurea Magistrale in Politiche europee e internazionali