di Samuele Mazzolini
Le raccapriccianti immagini giunte in questi giorni dall’Ecuador, ritraenti una banda di uomini incappucciati che, sotto la minaccia di fucili, pistole e dinamite, irrompono in un canale televisivo durante la diretta di un programma mettendo in scacco presentatore e tecnici, sono l’ennesima prova di quanto la spirale di violenza sia ormai fuori controllo nel paese andino. Ma procediamo con ordine: cosa è successo in questi ultimi giorni per determinare un’escalation di questo tipo?
Tutto inizia domenica, con la fuga dal carcere di Guayaquil del boss Adolfo Macías, noto come “Fito”, leader del gruppo dei “Choneros”, un gruppo criminale che opera in collaborazione con il cartello messicano di Sinaloa. La sua evasione, a quanto sembra, è stata propiziata da una fuga di notizie: il governo stava studiando di trasferirlo in una prigione di massima sicurezza, ma il boss viene allertato per tempo. Il giorno dopo, in diverse carceri del paese, si ripropongono le scene di caos che già viste negli anni scorsi: i detenuti si ammutinano e rilasciano video con le guardie penitenziarie ammanettate. In risposta, il presidente Daniel Noboa, insediatosi meno di due mesi fa, dichiara lo Stato di eccezione, che prevede, tra le altre cose, il coprifuoco dalle 23 alle 5, la sospensione dell’inviolabilità del domicilio e il coinvolgimento delle Forze armate a sostegno della polizia nazionale.
Il salto di qualità avviene tra lunedì sera e martedì pomeriggio, investendo diverse località del paese. Attacchi alla polizia, esplosione di ordigni, assalti in ospedali e università, nuove evasioni, tra cui quella di un altro criminale di spicco, il leader de “Los Lobos” Fabricio Colón Pico, e infine l’incursione al canale televisivo. È il messaggio delle bande criminali al nuovo esecutivo, come a dire: “con noi, non si scherza”. Ma Noboa, che già nelle ultime settimane aveva messo a punto il “Piano Fenix” per contrastare il narcotraffico, decide di raddoppiare e, in una decisione inedita, dichiara “attori belligeranti non statali” ben 22 gruppi delinquenziali, che diventano così vero e proprio bersaglio militare dell’esercito.
In realtà, quanto è successo in questi giorni non può destare grosso stupore. Si tratta dell’ennesimo episodio di una spirale di violenza che da 3-4 anni ha investito il paese. Basti pensare all’esponenziale aumento del tasso di omicidi, all’aumento dilagante di furti, sequestri, assalti, alle ripetute stragi negli istituti penitenziari dove bande rivali hanno dato vita a cruentissime faide, all’ammazzamento di un candidato presidenziale in piena campagna elettorale, all’esplosione del caso “Metastasis” che nelle ultime settimane ha monopolizzato le pagine della cronaca. Secondo le indagini condotte dalla procuratrice generale Diana Salazar, è infatti emersa la collusione con i narcos di numerosi funzionari della giustizia e delle forze di sicurezza, tra cui il presidente del potere giudiziario, Wiman Terán, ora sotto arresto.
Quali sono le ragioni che hanno fatto di un paese tutto sommato abbastanza tranquillo nel contesto sudamericano l’eden dei narcotrafficanti? Tre motivazioni concorrono a spiegare questi sviluppi, una di carattere internazionale, due di carattere nazionale. Per quanto riguarda la prima, l’espansione delle attività dei cartelli messicani – principalmente quelli di Sinaloa e Jalisco Nueva Generación, a cui si aggiunge la mafia albanese – e la loro capacità di infiltrazione li hanno portati a conquistare un territorio vergine, siglando accordi con diversi gruppi locali che agiscono da subappaltatori. Contestualmente, gli accordi di pace siglati in Colombia tra la guerriglia delle FARC – che aveva nel traffico di droga una delle sue attività di finanziamento più cospicue – e il governo hanno portato alla smobilitazione di buona parte dei guerriglieri, a cui però alcune frange non hanno aderito. Queste ultime hanno trovato nel vicino Ecuador una base per proseguire le proprie attività illecite.
Per quanto riguarda le motivazioni interne, una è di carattere storico: le forze di polizia, i servizi di intelligence e le forze armate sono tradizionalmente corrotte, il loro funzionamento è opaco, non essendo sottoposto al vaglio di nessun ente civile, e operano nella sostanziale impunità anche a fronte di gravi omissioni o violazioni. Nemmeno l’ex Presidente Rafael Correa, che era stato vittima di un tentativo di colpo di stato portato avanti da settori della polizia nazionale nel 2010, riuscì a intraprendere una riforma efficace di queste istituzioni. Come già successo con molteplici esecutivi, il sollevamento dei vertici dalle proprie funzioni non è sufficiente a cambiare procedure e norme culturali inveterate. È per questo che il semplice ricorso alla forza proposto da Noboa, che pure ha trovato il consenso dell’intero spettro politico all’insegna dell’unità nazionale contro quello che ormai viene definito terrorismo, rischia di essere inefficace, quando non dannoso. Già da ieri circolano video di abusi della polizia in seguito all’emanazione dei due provvedimenti menzionati. La possibilità che la forza venga applicata senza criterio ai settori più vulnerabili, su basi di classe e di razza, è concreta. Non a caso il Presidente ha dichiarato che le forze dell’ordine dovranno agire nel rispetto dei diritti umani, ma risulta difficile pensare possa essere così senza una riforma sostanziale degli apparati di sicurezza.
Infine, va menzionato l’impatto del modello economico e il dilettantismo degli ultimi governi. Le bande criminali hanno trovato terreno fertile per il reclutamento di migliaia di giovani delle periferie più povere grazie alla latitanza dello Stato e l’assenza di politiche pubbliche in grado di dare loro migliori speranze. L’agenda neoliberale ristabilita dagli ex presidenti Lenín Moreno e Guillermo Lasso ha fatto sì che lo Stato cessasse di fornire quella protezione che sotto il governo di Correa aveva migliorato le condizioni di vita di milioni di persone. A lungo termine, il rafforzamento di istituzioni votate all’inclusione economica e sociale è l’unica garanzia che le azioni di forza non si rivelino effimere.
Samuele Mazzolini è Ricercatore in Scienza Politica presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia e Senior Fellow di Polidemos.