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Turchia: perché Erdogan ha vinto le elezioni

Turchia: perché Erdogan ha vinto le elezioni

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di Claudio Fontana *

 

A marzo del 2023 l’inflazione in Turchia ha raggiunto il 50,6%, per poi scendere al 43% ad aprile. Lo scorso ottobre il dato faceva segnare il record degli ultimi 24 anni: +85,5% (fonte: Istituto Statistico turco - TUIK). Come sappiamo, l’inflazione incide in maniera significativa sul potere d’acquisto dei cittadini e dei nuclei familiari, ciò che dovrebbe dunque incidere sul comportamento degli elettori. Certo, anche in Turchia l’inflazione è dovuta in parte a fattori esterni come la guerra in Ucraina e le lunghe conseguenze della pandemia. La situazione è però aggravata dalle Erdonomics, le politiche eterodosse in materia economica attuate da Erdoğan, che consistono nell’abbassamento dei tassi d’interesse durante periodi di inflazione. A questo si aggiunge la svalutazione della lira turca, aggravatasi ulteriormente dopo l’annuncio della vittoria di Erdoğan. Oltre all’inflazione, c’è la crisi economica. La situazione nella provincia di Konya, roccaforte dell’AKP, la evidenzia: quando Erdoğan assunse il potere nel 2003, il reddito pro capite in questa provincia era di 4.250 dollari. Nel corso dei successivi dieci anni di governo dell’AKP, il dato è più che raddoppiato, raggiungendo e superando i 9.000 dollari. L’ultimo dato disponibile, tuttavia, mostra una forte discesa a 7.340 dollari. Elementi che avrebbero potuto nutrire un forte malcontento popolare.

In questo contesto di crisi è poi giunto il devastante sisma che ha colpito Turchia e Siria e provocato più di 50.000 morti, per i quali è difficile escludere almeno una parte di responsabilità della classe politica, tra prassi permissive per aggirare le normative anti-sismiche e una serie di condoni edilizi che hanno interessato proprio le zone nei pressi delle faglie. Difficile, in questo scenario, immaginare la vittoria dell’AKP e del suo leader, tanto che un attento analista di questioni turche come Soner Cagaptay ha scritto che così come il terremoto del 1999 aveva favorito l’ascesa di Erdoğan, che aveva avuto buon gioco a criticare le inefficienze governative in materia di prevenzione e di gestione dei soccorsi, allo stesso modo quello del 2023 avrebbe potuto porre fine al suo periodo al potere. Incoraggiati dai sondaggi, molti si aspettavano la sconfitta del presidente uscente, forse in cuor loro persuasi che, di fronte ai dati piuttosto convincenti del disastro, «simboli e narrazioni sono certamente affascinanti, ma sicuramente non sono la vera storia», come ha criticamente notato Nicholas Danforth. Come sappiamo però, è avvenuto l’esatto contrario ed Erdoğan si appresta a iniziare l’ennesimo mandato. Come è stato possibile che una situazione così grave non abbia spinto i cittadini turchi a penalizzare il governo uscente scegliendo un cambiamento di governo e di maggioranza parlamentare? La risposta, come sempre, non può essere univoca. Dovendo azzardare una sintesi potremmo individuare due parole alla base del successo di Erdoğan: islamismo e nazionalismo. Simboli e narrazioni, per tornare sulle parole di Danforth.

La crisi economica e il terremoto hanno certamente causato problemi a Erdoğan. Prova ne è il fatto che, nonostante la vittoria, il numero di voti che ha ottenuto è diminuito. Con ogni probabilità, tuttavia, questi eventi hanno anche permesso all’AKP di far valere il proprio potere e le proprie caratteristiche, convincendo un numero sufficiente di elettori che è più conveniente rimanere nella rete (anche clientelare) dell’attuale maggioranza. È probabilmente quello che hanno pensato i molti dipendenti pubblici che si sono visti aumentare lo stipendio poco prima delle elezioni. O le persone colpite dal terremoto che hanno potuto beneficiare del welfare parallelo messo in piedi dall’AKP. Eppure, questi elementi colgono soltanto una parte delle cause della resilienza mostrata da Erdoğan. Certamente occorre considerare anche il controllo governativo sugli organi di informazione e sulla magistratura, oltreché sull’esercito e i servizi di intelligence. Ma, ancora, non basta. Proprio ciò che è avvenuto dopo il terremoto permette di cogliere una caratteristica dell’elettorato religioso e conservatore turco: l’accettazione del destino come uno degli elementi che indirizzano la vita, pubblica e privata. Vi ha insistito Erdoğan stesso: «Alcuni ci prenderanno in giro, ma noi crediamo nel piano del destino. E perché crediamo nel piano del destino, diciamo che incidenti di questo tipo sono accaduti nel passato e accadranno in futuro. Accadranno sempre, ecco quello che dovremmo capire». Naturalmente Erdoğan vi ha insistito per opportunità politica, ma al tempo stesso ha evidenziato un tratto profondo di una parte della società turca. Ulteriore dimostrazione ne sono le performance del partito islamista di governo nelle province colpite dal sisma, come Kahramanmaraş, dove al primo turno ha superato il 70% di consensi, o Hatay, dove è stato sconfitto soltanto per lo 0,1%.

Erdoğan è stato capace di unire le istanze religiose a quelle nazionaliste. L’islamismo che ha proposto in campagna elettorale non è stato tanto il risultato del tentativo di derivare un ordinamento politico e sociale coerente a partire dall’Islam, quanto piuttosto la promessa dell’eccezionalismo turco e della rilevanza geopolitica. Così, temi salienti non sono stati quelli “classici” dell’islamismo, come l’istruzione religiosa, bensì la retorica anti-LGBT o la necessità di avere una potente industria della Difesa. Non va sottovalutato a questo proposito che proprio durante la campagna elettorale Erdoğan ha inaugurato, davanti a palazzo Topkapi, antica residenza dei sultani ottomani, la prima nave porta-droni costruita in Turchia.

Troppo spesso azioni come la conclusione della campagna elettorale nella riconvertita moschea di Santa Sofia sono state interpretate come puro opportunismo politico. Altre scelte invece, come la non casuale altezza dei minareti della moschea Çamlıca (107,1 metri, riferimento alla battaglia di Manzicerta), sono state liquidate come atti folkloristici. C’è di più. Se torniamo al periodo della conversione di Santa Sofia in moschea (2020), notiamo che la maggior parte dei commenti la riteneva una mossa per distrarre i cittadini dalla situazione economica, che già all’epoca si faceva complicata. Tuttavia, un’intervista concessa da Erdoğan nel 1994 smentisce questa ricostruzione: già allora era dichiarata pubblicamente la sua intenzione di restituire al culto islamico Santa Sofia, adottando come pretesto le modalità di “acquisto” utilizzate dal Sultano Mehmet II. Una «promessa» che sarà mantenuta «quando avremo la possibilità di farlo», dichiarò Erdoğan. L’episodio svela non solo l’obiettivo finale di Erdoğan - «restituire a Istanbul il suo volto islamico», disse in un altro passaggio – ma anche la sua strategia: non una rivoluzione, ma uno smantellamento dall’interno, pezzo dopo pezzo, della Repubblica secolarizzata fondata da Atatürk. Sull’obiettivo finale, da sindaco di Istanbul come da presidente, Erdoğan ha dimostrato di non accettare compromessi. Ma la storia degli ultimi vent’anni evidenzia anche che il presidente ha tutta la pazienza necessaria per raggiungere i suoi fini, scommettendo sul fatto che il gruppo sociopolitico con cui ha stretto un’alleanza di ferro, i conservatori religiosi, restino la maggioranza.  Sconfiggerlo equivarrebbe a effettuare un cambio di regime, come ha detto Ahmet Kuru in un’intervista a Polidemos. Per farlo non può bastare una coalizione composta da nazionalisti e curdi, destra e sinistra, politici dal passato islamista (come Ali Babacan e Ahmet Davutoğlu) e kemalisti. Servirebbe qualcosa di più convincente.

 

* Analista e Program manager alla Fondazione Oasis, e PhD candidate nella Scuola di Dottorato in "Istituzioni e Politiche" presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore. 

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