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Usa: immigrazione e proteste

Usa: immigrazione e proteste

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Cristina Bon

 

La cronaca americana delle proteste contro le azioni dell’Immigration and Custom Enforcement (l’agenzia federale che si occupa di controllo delle frontiere ed immigrazione) di inizio giugno ha mostrato come la questione dell’immigrazione, negli Stati Uniti come altrove nel mondo, sia un tema estremamente complesso, sistemico, foriero di questioni molto controverse e, quindi, difficilmente affrontabile dai governi delle democrazie contemporanee attraverso l’uso deciso ed esclusivo della forza, al di là dei presupposti di legalità che lo legittimino.  È lo stesso decorso degli eventi, a rendere evidente la complessità sociale, economica ed istituzionale del fenomeno.

L’intensificazione delle operazioni di arresto condotte dall’ICE a Los Angeles fra il 5 e il 6 giugno nei confronti degli immigrati irregolari, si inscrivono nella lotta a tutto campo contro l’immigrazione illegale annunciata da Trump fin dalla campagna elettorale e ribadita con forza il giorno stesso dell’insediamento. Del resto, negli Stati Uniti l’immigrazione è un ambito di controllo federale, attualmente regolato da una legge (l’Immigration Act of 1990) che, fra le altre cose, stabilisce e limita i visti di lavoro e specifica le procedure di deportazione. Come in altri ambiti di politica pubblica, l’amministrazione Trump non si limita, come da mandato costituzionale, ad “assicurarsi che le leggi siano fedelmente applicate” (Costituzione degli Stati Uniti, art. II, sec. 3), ma rafforza questo mandato sulla base dello stato di emergenza. Nella visione del Presidente, ben veicolata anche dal suo staff, a partire dal capo dell’ufficio stampa Karoline Leavitt, l’immigrazione illegale è costantemente associata alla criminalità e considerata una vera e propria “invasione”. Proprio sulla minaccia di invasione è stato costruito nei mesi scorsi il presupposto per l’invocazione di una legge federale del 1798 (l’Alien and Enemies Act) al fine di deportare duecento immigrati irregolari accusati di essere membri dell’organizzazione criminale Tren de Aragua, le cui azioni, però, secondo il giudizio della Corte Distrettuale Federale di Manhattan – che il 6 maggio scorso ha sospeso le operazioni federali in merito – non sono assimilabili ad una invasione o “incursione predatoria”.

Se dunque, da un lato, la logica del law enforcement viene costantemente esasperata dallo stato di emergenza nazionale, dall’altro le manifestazioni di protesta contro le azioni dell’ICE, ma soprattutto le leggi della California approvate nel 2017 che tutelano gli immigrati non regolari proibendo alle forze di polizia locale di collaborare con le agenzie federali sul territorio, raccontano un’altra storia. Nella California del XXI secolo, così come in molti altri Stati americani, i lavoratori immigrati a bassa qualificazione sono una realtà profondamente radicata e non facilmente sostituibile. Sicché, come sottolinea Fabio Sabatini, Ordinario di Economia Politica presso la Sapienza Università di Roma, cittadini americani e immigrati irregolari “anziché in concorrenza, si trovano in una relazione di complementarità” e una riduzione repentina dell’offerta di lavoro dovuta ad una deportazione di massa, determinerebbe un aumento dei salari che “farebbe lievitare i costi di produzione e, infine, i prezzi per i consumatori”. Potrebbero essere queste, del resto, le motivazioni alla base delle linee guida diffuse agli agenti dell’ICE dal Department of Homeland Security il 13 giugno, che indicavano di sospendere il ricorso alle retate di massa di lavoratori immigrati non autorizzati negli hotel, ristoranti e industrie del settore agricolo.

Il portato socio-economico dell’immigrazione, però, è solo uno dei nervi scoperti toccati dalle politiche dell’amministrazione Trump nelle ultime due settimane. Giovedì 12 giugno, poche ore prima delle linee guida inviate agli agenti dell’ICE sulla sospensione delle retate, la Corte Federale di San Francisco ha infatti sospeso la mobilitazione della Guardia Nazionale della California, voluta dal Presidente al fine di difendere gli agenti e gli edifici federali e supportare la loro azione, il 7 giugno scorso. Dopo l’ordine esecutivo mirante a reinterpretare il diritto di cittadinanza ai sensi del XIV emendamento, le decisioni sui dazi generalizzati e le misure di deportazione dei criminali di Tren de Aragua, la decisione di ingaggiare la National Guard ha portato nuovamente alla ribalta la questione dei poteri presidenziali e del loro uso legittimo. Trattandosi di uso di forze statali a supporto di azioni di law enforcement, il riferimento legale si trova non tanto nel paventato Insurrection Act del 1807 (che riguarda l’uso della forza militare per sedare rivolte interne) quanto in una disposizione dello U.S. Civil Code (10 U.S.C. § 252) che autorizza il Presidente a fare ricorso sia alla Guardia Nazionale sia alle forze armate federali, laddove si verifichino atti di ribellione o ostruzione illegale all’applicazione della legge, al solo fine di dare esecuzione alle norme.

Le notizie, a questo punto della vicenda, sono due: da un lato, l’Insurrection Act, non è stato invocato; dall’altro, l’attivazione la disposizione dello U.S.C. richiamata sopra, non fornisce al governo federale una autorità superiore a quella già attribuita agli agenti dell’ICE. In altre parole, e questo in virtù dei limiti posti all’uso offensivo (non difensivo) della forza militare per l’esecuzione della legge stabilito dal Posse Comitatus Act del 1878, c’è poco che la National Guard (che in quanto nazionalizzata è equiparata alle forze regolari dalla legge del 1878) possa fare se chiamata in supporto degli agenti federali. E, difatti, questo aspetto è stato precisato nel memorandum presidenziale del 7 giugno che ha autorizzato il Segretario della Difesa a nazionalizzare le milizie californiane al fine di “assicurare la protezione e la sicurezza del personale e della proprietà federali”. Tuttavia, se formalmente l’attivazione di 2000 soldati della Guardia Nazionale californiana non si è configurata come un palese abuso di potere da parte del Presidente, è pur vero che esistono motivi di apprensione. In particolare, come ben sottolineato da Stephen Vladek, professore di diritto americano alla Georgetown University, un impiego così massiccio di truppe statali per uno scopo (dichiarato) tutto sommato modesto potrebbe corrodere il morale delle truppe coinvolte, il rapporto tra governi locali/statali e governo federale e, infine, il rapporto fra esercito e società civile. Insomma, un rischio non commisurato allo scopo, che sarebbe stato quello di servire l’agenda politica del Presidente piuttosto che di ristabilire la sicurezza e l’ordine in un contesto sfuggito al controllo delle autorità locali. Un’ultima considerazione: la questione dell’uso della forza militare per l’esecuzione della legge e la difesa del patrimonio federale era già stata oggetto di ampio dibattito nella famosa estate del 2020, quando l’onda di protesta “Black Lives Matter” incontrò la ferma opposizione del Law and Order President. Ora come allora, l’amministrazione Trump non ha assolutamente fatto ricorso all’Insurrection Act, bensì ad una comunicazione incendiaria seguita ad un impiego unilaterale delle forze a disposizione del Presidente nei limiti massimi concessi dalle leggi federali; un’azione che, inevitabilmente, presta comunque il fianco all’obiezione da parte delle Corti; un gioco a scacchi fra esecutivo e giudiziario dall’esito ancora aperto.

 

Cristina Bon è professoressa associata di Storia delle istituzioni politiche presso l'Università Cattolica del Sacro Cuore

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