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Una nuova marea rosa? La svolta a sinistra dell’America Latina

Una nuova marea rosa? La svolta a sinistra dell’America Latina

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di Samuele Mazzolini

 

Dopo un breve interludio in cui l’America Latina sembrava aver virato a destra, i recenti processi elettorali a livello nazionale hanno ridisegnato ancora una volta la mappa politica del continente. Analisti e politologi si chiedono infatti se siamo o meno di fronte a una nuova “marea rosa”, in riferimento al ciclo di governi di sinistra/centro-sinistra che aveva interessato buona parte dei paesi latinoamericani a cavallo tra la fine del secolo e la metà, anno più anno meno, degli anni ’10. Il ritorno al potere di Lula in Brasile pare aver sancito definitivamente una tendenza che aveva iniziato a prendere piede già prima della pandemia. Inizialmente, è stato il Messico a muovere in questa direzione, con l’affermazione nel 2018 di Andrés Manuel López Obrador, comunemente conosciuto con l’acronimo di AMLO e a buon diritto considerato un populista di sinistra. Il suo successo non è di poco conto dal momento che il Messico non vedeva un esecutivo così spostato a sinistra dai tempi di Lázaro Cárdenas negli anni ’30 del secolo scorso. La vittoria del peronista Alberto Fernández in Argentina nel 2019, dopo i quattro anni al governo del centro-destra di Mauricio Macri, iniziava a dare peso a questo trend. Successivamente, e in maniera sorprendente dato che in passato erano rimasti indifferenti alla marea rosa, tra il 2021 e il 2022 sono passati a sinistra anche il Perù con Pedro Castillo (poi destituito e con il paese tuttora in preda al caos politico) e la Colombia, con a capo l’ex guerrigliero del movimento M-19, Gustavo Petro. In Cile, che pur aveva visto l’affermazione del centro-sinistra in passato nella figura di Michelle Bachelet, la protesta sociale del 2019, a distanza di due anni, ha portato allo storico Palacio de la Moneda Gabriel Boric, leader delle proteste studentesche di oltre un decennio fa e più apertamente schierato a favore della giustizia sociale e dei diritti civili. Parimenti in Bolivia è tornato a governare il Movimiento al Socialismo, dopo il governo interino di Jeanine Áñez, frutto di quell’episodio a cavallo tra il colpo di stato e la sommossa popolare che aveva scalzato Evo Morales dal potere. Mancano all’appello, rispetto al ciclo precedente, Ecuador e Uruguay, sebbene la recente vittoria del partito di Rafael Correa alle elezioni locali e gli ultimi sondaggi provenienti dalla Repubblica orientale suggeriscono la possibilità di un ritorno al potere dei precedenti movimenti di governo tra il 2024 e il 2025. Permangono infine saldi nei loro palazzi presidenziali, sebbene solo a costo di una netta svolta autoritaria, Nicolás Maduro in Venezuela e Daniel Ortega in Nicaragua, così come Miguel Díaz-Canel a Cuba.

Tuttavia, al di là delle sterili comparazioni in stile Risiko tra le mappe politiche di allora e quelle odierne, è necessario fare alcune puntualizzazioni che mettono in luce le nette differenze tra l’ondata precedente e quella attuale. Le economie latinoamericane attraversano un momento difficile, ben diverso dalla floridità dei primi anni 2000 caratterizzata da un alto prezzo delle materie prime sui mercati mondiali che aveva permesso agli apparati statali un margine di autonomia maggiore per effettuare politiche pubbliche tese a riequilibrare le disuguaglianze sociali. Senza contare che, a differenza di allora, la coscienza ambientale è cresciuta considerevolmente anche in America Latina, specialmente grazie alle molte vertenze e proteste che hanno impugnato il modello economico estrattivista e che condizionano maggiormente i governi di sinistra. In secondo luogo, a dispetto del ciclo scorso, le maggioranze parlamentari sono più risicate: in Brasile, ad esempio, Lula è condizionato dal Movimento Democrático Brasileiro, che in passato aveva contribuito alla caduta di Dilma Rousseff durante la procedura di incriminazione. Va inoltra sottolineato che, seppur sconfitta, la destra latinoamericana non solo non può dirsi messa all’angolo, ma ha subito un processo di radicalizzazione (si vedano i casi dello stesso Jair Bolsonaro in Brasile, di José Antonio Kast in Cile e, seppure con sfumature diverse, quello di Javier Milei in Argentina) che potrebbe influire sui settori più moderati. Manca inoltre un centro propulsore: se Venezuela e Brasile erano stati, per le rispettive correnti della marea rosa, cioè quella più radicale e quella più moderata, un faro in grado di dettare la linea ad altri paesi grazie anche a un attivismo internazionale senza precedenti, tale fervore si è nettamente affievolito. Con un’economia a pezzi, l’esodo di milioni di compatrioti per il continente e una morsa autoritaria sempre maggiore, il modello venezuelano ha ormai smesso di esercitare qualsiasi attrazione da diversi anni, mentre l’entusiasmo per la rielezione di Lula sembra essersi sgonfiato subito dopo le elezioni. In parallelo, i processi di integrazione latinoamericana hanno subito un arresto che i nuovi governi di sinistra non paiono capaci di invertire.

Eppure le sfide politiche e sociali abbondano. Non solo la disuguaglianza, tara tristemente nota e inveterata, si è intensificata, ma persino la povertà, compresa quella estrema, ha raggiunto cifre record, grazie anche alle ripercussioni della pandemia da Covid-19. Le economie latinoamericane rimangono estremamente vulnerabili alle fluttuazioni esterne, il settore informale continua ad avere un peso enorme e lo stato sociale, dopo il passaggio delle destre al governo, risulta nuovamente indebolito, senza che avesse mai nemmeno da vicino raggiunto gli standard europei. Si aggiungono moltissime altre difficoltà: la violenza e l’insicurezza, la questione climatica e quella energetica, la scarsa abitabilità nei grandi centri urbani, la crescente distanza della cittadinanza dalle istituzioni democratiche: tutte incognite che richiedono un intervento deciso e fermo da parte dello Stato. Alla luce degli scarsissimi livelli di tassazione in tutta la regione, una riforma fiscale sarebbe la soluzione più ragionevole per dotare le istituzioni della necessaria incisività e ovviare, almeno in parte, a queste problematiche. Ma per ottenerla è necessaria una legittimità politica che contrasta con l’attuale debolezza dei nuovi esecutivi.

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