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Un civismo repubblicano per curare una democrazia stanca?

Un civismo repubblicano per curare una democrazia stanca?

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di Damiano Palano

 

È quasi banale riconoscere che la democrazia americana vive oggi una crisi per molti versi inedita. Dopo decenni di apparente stabilità politica, nel 2016 – in occasione della corsa alla Casa Bianca che vide la vittoria di Donald Trump – il risentimento contro l’establishment esplose improvvisamente, rivelando quello che andava fermentando sotto la superficie. E mostrando come la società americana fosse attraversata da contrapposizioni radicali, che da allora sono diventate addirittura più intense. Da quel momento sugli scaffali delle librerie sono comparse decine di libri che hanno tentato, in vari modi, di interpretare un mutamento tanto brusco. Alcuni – come, tra gli altri, l’ex Segretario di Stato Madeleine Albright – hanno segnalato come ciò che sta avvenendo in questi anni a Washington assomigli molto a quanto accadde in Europa tra le due guerre, quando istituzioni democratiche indebolite rimasero vittima dell’ascesa di prorompenti movimenti autoritari. Altri, come il politologo Robert Putnam, hanno invece rinvenuto le cause delle difficoltà contemporanee in un lungo processo di erosione del capitale sociale e di quello spirito associativo che, secondo Tocqueville, aveva caratterizzato l’esperimento democratico americano.

Una lettura in parte convergente si può ritrovare anche in La democrazia stanca. Nuovi pericoli e possibili soluzioni per tempi difficili del filosofo americano Michael J. Sandel (Feltrinelli, euro 30.00). L’edizione originale del libro risale al 1998, ma ora il testo viene proposto al lettore italiano accompagnato da una nuova introduzione, in cui l’autore riflette su quanto è accaduto nel frattempo. E Sandel non ha certo grandi difficoltà a riconoscere come la diagnosi formulata alla fine degli anni Novanta sulla stanchezza della democrazia americana risulti confermata in modo piuttosto eclatante dagli sviluppi dell’ultimo quarto di secolo.

Secondo le mappe un po' semplificate del dibattito filosofico americano, Sandel è un esponente del comunitarismo e un critico piuttosto severo dell’approccio avviato da John Rawls. Negli ultimi anni, per esempio con La tirannia del merito (2021), si è concentrato soprattutto sulle conseguenze sociali e politiche di una concezione individualistica della libertà. In La democrazia stanca si possono trovare le basi della sua critica alla filosofia pubblica americana, o quantomeno alla versione divenuta egemone nella seconda metà del Novecento. Una filosofia incentrata secondo Sandel su una visione della libertà per la quale ciascun individuo deve essere libero di scegliere autonomamente come vivere. Le istituzioni politiche, secondo questa concezione, dovrebbero rimanere neutrali rispetto ai punti di vista morali e religiosi dei cittadini e alle specifiche concezioni della «vita buona» di cui essi si fanno alfieri. E lo Stato ideale dovrebbe pertanto configurarsi come una “repubblica procedurale”, capace di garantire una cornice di diritti uniforme e dunque di consentire a ciascun individuo di scegliere i propri valori e i propri fini. 

La filosofia pubblica che Sandel definisce come liberale non è però l’unica che abbia contrassegnato la tradizione politica americana. Anzi, a suo avviso, alla base dell’esperimento democratico avviato dalle tredici ex-colonie, si trovava una visione piuttosto differente: una versione specifica della teoria politica repubblicana, secondo la quale «la libertà dipende dalla partecipazione all’autogoverno». Questa filosofia pubblica non è incompatibile con i principi del liberalismo, ma non si limita a concepire la partecipazione coma la scelta che ciascun individuo compie intorno ai fini da perseguire, perché richiede anche – come presupposto – un senso di appartenenza, un «legame morale» con la comunità. E proprio per questo la repubblica non può essere neutrale rispetto ai valori cui aderiscono i cittadini. Deve anzi coltivare in loro quelle virtù etiche che l’autogoverno richiede. E deve inoltre impedire che condizioni di lavoro degradanti o grandi diseguaglianze economiche vanifichino la promessa dell’autogoverno.

Se la filosofia repubblicana era stata prevalente per lungo tempo sulla scena americana, secondo Sandel a partire degli anni Cinquanta iniziò invece l’ascesa della concezione liberale, destinata poi a trionfare sul finire del Novecento e a tradursi, di fatto, in un predominio delle ragioni del mercato. «L’attrattiva più forte dei mercati» scrive infatti Sandel nel poscritto alla nuova edizione, «non sta nel fatto che essi forniscono efficienza e prosperità, ma nel fatto che sembrano risparmiarci la necessità di dibattiti intricati e conflittuali su come valutare i beni». Bandire le questioni controverse dal dibattito non comporta però che non si prenda una decisione: vuol dire semplicemente, secondo il filosofo di Harvard, che «i mercati, diretti dai ricchi e dai potenti, decideranno tali questioni per noi».

L’immagine della comunità “perduta” e la stessa idea del civismo repubblicano sembrano talvolta più riferimenti nostalgici che concetti radicati in realtà concrete. Ma non c’è dubbio che la portata critica dell’analisi svolta da Sandel abbia una propria efficacia, e – per arricchirne la forza – si potrebbe persino farne una lettura incrociata con un’interpretazione, politicamente opposta, come quella avanzata da Wendy Brown nel suo libro Il disfacimento del demos. La rivoluzione silenziosa del neoliberalismo (Luiss University Press), anch’esso pubblicato ormai un decennio fa, ma senza dubbio utile per riconoscere le crepe dei sistemi democratici contemporanei. Nella lettura di Sandel l’America di oggi, rancorosa e polarizzata, è comunque sia il frutto amaro di un prolungato logoramento del senso di comunità, sia della contestuale ascesa del potere delle grandi compagnie e in particolare delle big tech. La strada per invertire la rotta passa invece sia dalla possibilità di sottoporre il potere economico a un «controllo democratico», sia dalla capacità di garantire a tutti i cittadini, grazie a condizioni di lavoro dignitose, una reale partecipazione alla vita pubblica. Che si tratti di una strada stretta e accidentata è persino scontato da ricordare, e lo stesso Sandel ne è ben consapevole. Il suo auspicio è che la dimenticata tradizione repubblicana possa offrire gli strumenti per una nuova «economia politica della cittadinanza» e per immaginare un futuro diverso da quello di una democrazia stanca, schiacciata nella morsa della tecnocrazia e del mercato. Ma la domanda su quale sia strada in grado di condurre in questa direzione rimane ancora per molti versi aperta.

 

Damiano Palano è Direttore dell'Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali (Aseri) e Direttore di Polidemos

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