di Cristina Bon
A una settimana dalle elezioni presidenziali statunitensi del 5 novembre 2024, sui media e in rete rimbalzano insistentemente i timori di quanti si chiedono se il secondo mandato di Donald Trump metterà a rischio la democrazia statunitense e il suo bicentenario sistema di checks and balances. Prima di entrare nel merito della questione, va detto che la storia della democrazia statunitense è sempre stata estremamente controversa. L’esperimento americano nasce, come è noto, sul devil compromise, ovvero l’accettazione di un sistema di rappresentanza politica federale che includeva i tre quinti degli schiavi nei computi necessari per distribuire i seggi presso la House of Representatives. Ne derivò un ossimoro, una “Repubblica schiavista”[1] che, nel giro di settant’anni, portò la Federazione nel vortice della Guerra Civile. Ma le contraddizioni proseguirono anche oltre e, nella seconda metà dell’800, la rifondata nazione di Lincoln abdicò alla tutela dei diritti civili e politici degli schiavi liberati e accettò l’instaurazione della segregazione negli ex-stati confederati. Per non parlare dello sterminio dei nativi, della xenofobia patita dai migranti, della totale esclusione delle donne dall’arena politica fino all’introduzione del XIX emendamento nel 1920, della corruzione clientelare delle macchine di partito, della collusione fra politica e big business industriale e finanziario, che contribuì a trascinare il paese nella crisi finanziaria internazionale più nera del Ventesimo secolo. Sempre nel ‘900 vanno ricordati il Maccartismo, l’approfondimento delle diseguaglianze di classe a fronte di politiche sociali non risolutive e altalenanti (contro cui peraltro si scatenò l’ondata conservatrice delle elezioni del 1968) l’espansione spesso incontrollata del ‘privilegio esecutivo’ nella gestione della politica estera – che portò, fra le altre cose, ad impiegare la CIA in operazioni clandestine al fine di rovesciare regimi stranieri scomodi. Anche il ventunesimo secolo si è poi aperto all’insegna del pericolo di involuzione autoritaria della Presidenza, quando, nel contesto della guerra al terrore, W. Bush autorizzò la National Security Agency ad avviare un programma di sorveglianza segreta finalizzato ad intercettare conversazioni nazionali ed internazionali su dispositivi elettronici e il Dipartimento di giustizia giustificò queste operazioni sulla base dell’ “inherent constitutional authority del Presidente”[2].
Alla luce delle molte contraddizioni che hanno caratterizzato la storia del sistema politico americano, è possibile affrontare più consapevolmente la questione della possibile destabilizzazione della democrazia statunitense durante il prossimo mandato di Donald Trump, partendo da un dato: i quasi 74,837 milioni di voti e i 312 elettori guadagnati dal candidato repubblicano, la cui vittoria è stata riconosciuta senza recriminazioni dalla controparte. Anche questa è democrazia. Può non piacere, come può non piacere gran parte della storia politica americana. Ma va accettato, proprio per garantire quella peaceful transition of power che lo stesso Trump sfidò apertamente nel 2020. Fatte tutte queste premesse, rimane vero che la vittoria di Trump abbia riaperto la questione dello spazio di azione dell’esecutivo e che, quasi sicuramente, durante il suo prossimo mandato assisteremo ad un’ulteriore evoluzione delle prerogative e delle competenze presidenziali. Un processo di lungo corso, quello del rafforzamento del ruolo del Presidente, iniziato almeno negli anni ’30 del ‘900, durante l’amministrazione di Franklin Delano Roosevelt, e da allora mai arrestato.
Ma quali sono gli ambiti in cui il 47° Presidente degli Stati Uniti potrebbe effettivamente ampliare il proprio raggio d’azione? Per definirlo, risulterà cruciale stabilire se e che tipo di maggioranza Trump riuscirà a strappare alla Camera. Se la maggioranza repubblicana in Senato è già stata accertata, mentre si scrive il conteggio dei seggi alla Camera vede i repubblicani in vantaggio (214 a 203), con solo 4 seggi mancanti per la maggioranza e ulteriori 4 quasi assegnati; stante l’attuale situazione, i democratici si assesterebbero invece a quota 213. Le cose non sarebbero quindi molto diverse dagli equilibri del 2016, se non fosse per due aspetti. Il primo: otto anni fa il partito Repubblicano non era il partito di Trump e, durante tutta la permanenza in carica il Presidente preferì utilizzare gli strumenti della presidenza amministrativa (come executive orders e memoranda) soprattutto sulle questioni dell’ambiente, dell’immigrazione e delle politiche tariffarie, piuttosto che mettere mano a progetti di legge che avrebbero richiesto una paziente negoziazione con il Congresso. Questo gli comportò non poche frustrazioni, come quando il cosiddetto Muslim Ban gli venne bloccato dalle Corti federali. Oggi, il combinato disposto di una trifecta associata alla disciplina di partito potrebbe dare a Trump, almeno nei suoi primi due anni di incarico, la possibilità di attuare una serie di misure che vengono considerate potenzialmente lesive dei diritti umani da un lato - le deportazioni di massa di immigrati irregolari e, probabilmente, anche un programma simile al Muslim Ban - o finalizzate a realizzare una epurazione politica, come la molto paventata reintroduzione di una misura tesa a privare decine di migliaia di impiegati federali (inquadrati nella categoria Schedule F) dalla protezione conferita dallo status di personale di carriera, rendendoli di fatto dispensabili a discrezione del presidente. Nel 2020, questa misura fu introdotta per executive order e quindi poi facilmente revocata da Biden, ma con due Camere favorevoli la crociata contro il deep state potrebbe rivelarsi più incisiva. Anche per rivoluzionare completamente l’amministrazione, abolendo ad esempio il Department of Education, come prospettato nella platform repubblicana 2024, Trump avrebbe bisogno del sostegno delle Camere, che potrebbero agire direttamente, oppure concedergli una straordinaria autorità di riorganizzazione dell’esecutivo, che non è stata più conferita ad un Presidente dal 1984. Ci sono quindi i presupposti perché Trump spazzi via un secolo e mezzo di integrazione dei principi di professionalità e imparzialità nel tradizionale sistema di burocrazia ‘democratica’ dominata dallo spoils system. La seconda differenza rispetto al 2016 riguarda l’assetto della Corte Suprema, che lo stesso Trump ha contribuito a forgiare e che in questo momento presenta una maggioranza conservatrice netta di 6 a 3. Con la massima corte di giustizia federale dalla sua parte, Trump potrebbe utilizzare gli strumenti dell’unilateralismo presidenziale con più disinvoltura e riaprire pratiche lasciate in sospeso nel primo mandato, come ad esempio l’uso eterodosso che, nell’estate del 2020, fece della National Guard degli Stati al fine di contenere azioni di protesta senza l’invocazione del Militia and Insurrection Act, un’azione estremamente controversa e allora molto dibattuta[3]. Per capire quindi di quale raggio di azione presidenziale potrà godere Trump, non resta che attendere gli ultimi conteggi elettorali che definiranno la maggioranza alla Camera.
Desta infine una certa apprensione il problema del conflitto di interessi che potrebbe profilarsi laddove il principale finanziatore della campagna di Trump, Elon Musk, ottenesse dal Presidente eletto incarichi ufficiali nello staff presidenziale, o anche solamente la nomina di alcuni dipendenti di SpaceX ad alte posizioni governative, magari nel Dipartimento della Difesa, che rappresenta uno dei principali clienti della compagnia missilistica. Musk non è l’unico miliardario in cerca di un posto nell’amministrazione Trump. Fra i nomi papabili per la gestione del Dipartimento del Tesoro, spicca infatti Mr. Lutnick, l'amministratore delegato della società di Wall Street Cantor Fitzgerald.
Più che la tenuta dei checks and balances, le preoccupazioni relative al sistema democratico riguardano dunque la possibilità che Donald Trump riesca, grazie alla legittima connivenza di un Congresso a maggioranza repubblicana e alla condiscendenza della Corte Suprema, a promuovere politiche giuridicamente controverse e divisive, nonché uno stile di governo autoritario. In un sistema democratico dinamico come quello americano, la macchina dei contrappesi si è messa in azione ben prima del 5 novembre. Qualche mese fa Joe Biden ha emanato un regolamento per “Sostenere le tutele del servizio civile e i principi del sistema di merito”[4], mentre i governatori degli Stati pienamente democratici (al momento 18) stanno prendendo un serie di misure per proteggere i propri residenti e l’autonomia delle politiche pubbliche dei propri stati dalle azioni federali previste dall’amministrazione Trump, al fine in particolare di assicurare la protezione dei diritti civili, la libertà riproduttiva, l’azione per il clima e le famiglie immigrate[5]. Va anche ricordato che, nella notte fra il 5 e il 6 novembre, proprio mentre Trump guadagnava la maggioranza di Grandi Elettori, il referendum sulla protezione costituzionale del diritto all’aborto passava in 7 stati sui 10 chiamati a votare sul tema. C’è quindi da aspettarsi che, nel prossimo futuro, anche i checks and balances verticali – quelli che chiamano in causa le relazioni federali – verranno attivati spesso e che pertanto gli Stati rivendicheranno il loro ruolo di garanti del sistema costituzionale.
Cristina Bon è professoressa associata di Storia delle istituzioni politiche presso l'Università Cattolica del Sacro Cuore.
[1] D. E. Fehrenbacher, The Slaveholding Republic. An Account of the United States Government’s relations to slavery, Oxford, Oxford University Press, 2001
[2] Memo from Attorney General Alberto R. Gonzales, Legal Authorities Supporting the Activities of the National Security Agency decribed by the President, Jan. 19, 2006, http://www.justice.gov./olc/2006/nsa-white-paper.pdf
[3] Su questo mi permetto di rimandare a C. Bon, C. Bon, “The Law and Order President”: il law enforcement di Trump nella gestione della protesta anti-razziale. Una riflessione storico-istituzionale, in «Quaderni di Scienze Politiche», voll. 17/18 (2020), pp. 301-326, p. 321.
[4] 89 FR 24982. Nel dicembre 2022 il Congresso aveva anche approvato un Electoral Count Act (Public Law 117-328 117th Congress) per migliorare il processo di conteggio dei voti elettorali presidenziali e chiarire il ruolo degli attori statali e federali (soprattutto il ruolo del Vice Presidente nella certificazione dei voti) al fine di contenere possibili derive di eventuali contestazioni prolungate.
[5] In California, come già successo durante il primo mandato Trump, i capi delle procure stanno preparando ricorsi contro eventuali misure federali annunciate che interessino il loro territorio, soprattutto sulle questioni della tutela ambientale e dell’immigrazione. Cfr. M. Gaggi, La corsa dei governatori democratici per blindarsi dagli affondi di Trump, “Corriere della Sera”, 10 novembre 2024, p. 6; A. Edelman, Democratic governors vow to protect their states from Trump and his policies, “NBC News”, November 8, 2024, https://www.nbcnews.com/politics/2024-election/democratic-governors-vow-protect-states-trump-policies-rcna179295 ;