di Antonio Campati
Ma allora anche le élite hanno votato Trump? Questo interrogativo è presente in forma indiretta in non poche analisi dedicate al voto americano, perché parlarne esplicitamente significherebbe affrontare un tema alquanto spinoso, che però non può essere eluso.
In principio, Trump era considerato il paladino dell’anti establishment, pur essendone lui stesso parte. Durante un comizio nell’agosto del 2018, rivolgendosi ai suoi sostenitori, li indicò come la real élite del paese, cioè come i veri decisori delle sorti dell’antica democrazia americana. Seppur efficace, la formula retorica si scontra con l’analisi politologica, che ricorda come il governo rappresentativo si basi appunto sul sistema della rappresentanza e quindi sulla relazione tra un popolo – i molti – che attraverso le elezioni scelgono i rappresentanti – i pochi – i quali devono governare e rendere conto periodicamente delle loro azioni. Come gli studiosi sanno, c’è sempre una tensione tra teoria e pratica – e non è certo questa la sede per approfondire la questione. Il punto da evidenziare è legato al fatto che la contrapposizione tra élite e popolo è stata sicuramente interpretata da Trump in modo strumentale alla ricerca di un vasto consenso, che si è rivelato sufficiente per vincere l’elezione del 2016, ma non quella del 2020.
Anche nell’ultima campagna elettorale la contrapposizione è stata evocata in non pochi momenti narrativi, ma questa volta, a urne chiuse, non è sufficiente indicarla come una delle strategie più rilevanti messe in pista dal leader del partito repubblicano, perché una parte dell’élite si è schierata apertamente con quest’ultimo. In altre parole, lo schema noi-popolo contro l’élite dell’upper class non è più solo una modalità retorica e pertanto deve essere analizzato più in profondità.
La vittoria di Trump è il frutto di un allargamento dell’elettorato, ora composto oltre che dal suo bacino tradizionale e dal tipico elettorato repubblicano (che sembrerebbe essersi in parte ricompattato), anche da minoranze etniche e, per l’appunto, da una fetta importante di élite, di cui Elon Musk è solo l’espressione più nota. Naturalmente, anche nelle due precedenti tornate elettorali che lo hanno visto candidato, Trump poteva godere dell’appoggio di finanziatori facoltosi, network mediali diffusi, personalità influenti in vari settori della società. Ma questa volta l’appoggio è stato più consistente ed esplicito tanto da far emergere pezzi importanti della società che prima sembravano essersi assopiti in attesa che passasse la grande tempesta provocata dal tycoon. Naturalmente, non è affatto scontato che questa combinazione di mondi possa funzionare, ma costituisce la base, come sostiene Lorenzo Castellani, di un’accelerazione reazionaria guidata da un nucleo di élite in gran parte estranea alla politica.
In breve, in quella che ormai è una vera e propria era Trump – iniziata otto anni fa e che si potrà dispiegare almeno per i prossimi quattro anni – possiamo fissare una cesura per quanto riguarda il discorso sulle élite tra la prima campagna elettorale, e la successiva presidenza, e la terza campagna elettorale, e (l’avvio) della seconda presidenza.
In uno sferzante editoriale sul New York Times, il 9 novembre, Thomas Frank ha fatto una disamina della vittoria di Trump e della cocente sconfitta dei democratici denunciando come le élite liberal e democratiche del paese non abbiano avuto la capacità di arginare il fenomeno Trump, nonostante – ecco la vena polemica – siano espressione delle più prestigiose università del paese, dei circoli intellettualmente più colti e possano contare sull’aiuto dei migliori consulenti in circolazione. Lo stesso giorno, Matthew Parris su The Spectator si è però speso in una difesa delle élite liberal invitandole a non eccedere in autocritica e nel continuare a tenere la testa alta nonostante la sconfitta. Il dibattito è solo agli inizi e gli sviluppi polemici non mancheranno, anche da questa parte dell’Atlantico.
Per ora, cerchiamo di riflettere su un paio di aspetti. Il primo riguarda l’annosa questione che si accennava in apertura. La vittoria di Trump rimette al centro un tema fondamentale: qual è il ruolo delle élite in una democrazia liberale? Continuare a rappresentarle come contrapposte al popolo e intente a tutelare gli interessi economici e finanziari dei nuovi oligarchi coglie solo una parte di verità: consente di fare un discorso semplice e immediato, che tra l’altro può essere adottato in maniera interscambiabile sia da Trump, sia da esponenti dell’estrema sinistra americana (e non solo). Occorre allora inserire la riflessione sulle élite in un quadro più ampio e sistematico: le democrazie del XXI secolo non possono fare a meno delle élite, ma allo stesso tempo non possono neppure rappresentare dei grumi di potere incontrollabile. Da questa constatazione di fondo occorre costruire una nuova sintesi tra sistema delle élite e sistema democratico, cercando innanzitutto di tenere distinti i diversi tipi di élite.
Il potere di influenza che è nelle mani di Musk è il segno del successo eclatante di una fetta di superclass che entra alla Casa Bianca dalla porta principale, ma senza un mandato popolare. Non sappiamo se un’influenza così incisiva rimarrà tale anche nei prossimi mesi e anni, ma non possiamo ignorare il fatto che la presenza attiva di figure come quella dell’amministratore delegato di Tesla nell’area del governo può modificare, anche sensibilmente, il funzionamento degli equilibri che regolano la rappresentanza politica e, infatti, sono sotto la lente di osservazione degli studiosi ormai da tempo. In un celebre libro di qualche anno fa (Democrazia S.p.A., 2008) Sheldon S. Wolin cita Trump una sola volta, tra parentesi, riferendosi alla sua popolare trasmissione televisiva The Apprentice, ma alcune dinamiche che ne hanno favorito l’ascesa alla Casa Bianca sono già individuate in quel libro, che si sofferma diffusamente proprio sul dominio delle élite (soprattutto economiche) e propone delle riflessioni che forse vale la pena riprendere; eventualmente sviluppando le conseguenze che la prima presidenza Trump ha impresso nella conversione del potere politico alle logiche del privato, come rilevò quattro anni fa Giovanni Borgognone (House of Trump. Ritratto di una presidenza privata, Egea 2020).
Rispetto all’influenza delle élite in questa campagna elettorale, c’è però almeno un altro aspetto da prendere in considerazione, solo all’apparenza estraneo alle dinamiche politiche. Mi riferisco al ruolo che hanno assunto star del cinema, influencer, cantanti, insomma i membri di quello che chiamiamo genericamente star system o forse, in maniera più inclusiva, establishment culturale, schierato per larghissima parte con Kamala Harris. Non è questa la sede per capire se e quanto abbiano influito le dichiarazioni di voto dei membri di questa élite. Visto l’esito elettorale, la tentazione sarebbe quella di rievocare il titolo di un vecchio libro di Francesco Alberoni, uscito nel 1963, intitolato L’élite senza potere (Vita e Pensiero). Tralasciando le facili ironie, è però proprio l’intuizione di fondo di questo libro a essere utile ancora oggi. Infatti, Alberoni si poneva come obiettivo quello di indagare il profilo dei «divi», di coloro cioè che non occupano posizioni istituzionali di potere, le cui decisioni non sono viste e valutate collettivamente, ma la cui attività è oggetto di ammirazione e la cui vita è seguita con interesse. Dopo sessant’anni, il contesto è profondamente mutato, ma quel tipo di élite non solo è ancora al centro dell’attenzione di larga parte dell’opinione pubblica, ma non è infrequente che intervenga nell’ambito politico, talvolta anche con un impegno diretto volto a modificare una decisione pubblica, il corso di una discussione e persino la sorte di un provvedimento legislativo. Nella nuova conformazione del rapporto tra élite e democrazia, è dunque inevitabile che un capitolo debba essere dedicato ai «divi» che influenzano in modo dirimente il dibattito pubblico, oggi soprattutto grazie ai social.
In conclusione, da accusatore delle élite, nonostante ne facesse parte, Trump è divenuto federatore di nuove élite. La gestione del potere ne è l’unico collante o emergeranno i contorni di una nuova ideologia? Prevarranno le élite economiche a scapito di quelle politiche determinando un’ulteriore torsione privatistica alla presidenza? I divi rimarranno in prima fila nel dibattito pubblico o si assisterà a una sorta di ritiro per evitare compromissioni con la politica? La terza fase dell’era Trump è appena iniziata.
Antonio Campati è ricercatore di Filosofia politica presso l'Università Cattolica del Sacro Cuore