di Valerio Alfonso Bruno
Riflettere sull’influenza che una seconda presidenza americana guidata da Donald Trump avrà sulla destra radicale ed estrema in Europa richiederebbe un’analisi molto complessa e su più livelli. La prima ragione è che i partiti europei di destra radicale ed estrema non rappresentano un’entità coesa ed omogena, bensì una galassia frammentata, formata da movimenti e partiti spesso in competizione, se non in conflitto, tra loro. Qui ci limiteremo piuttosto ad un’analisi generale su quella che potrebbe essere l’influenza che una seconda amministrazione MAGA avrà sulla “galassia far right” in Europa, muovendoci su due direttrici: una di tipo simbolica ed ideologica e l’altra di tipo politico-istituzionale. Per partire dalla riflessione relativa alla direttrice di tipo simbolica, è necessario fare qualche passo indietro e guardare alle dinamiche che hanno consentito a Trump non solo di correre nuovamente per le presidenziali americane ma di vincerle.
Da oltreoceano il primo messaggio è il “via libera” alla radicalizzazione? Quando il 6 gennaio 2021 si è consumato l’assalto al Campidoglio, sede del Congresso degli Stati Uniti, da parte dei sostenitori di Donald Trump, in pochissimi avrebbero scommesso sulle chances da parte del tycoon di New York di continuare impunemente la propria carriera politica, per non parlare della possibilità di ricandidarsi alla presidenza degli Stati Uniti d’America.
Indipendentemente dal fatto che gli eventi del 6 gennaio 2021 possano essere qualificati come tentativo di colpo di Stato o se piuttosto si sia trattato di una manifestazione di rabbia da parte di un gruppo di sostenitori frustrati, la comunità internazionale si sarebbe aspettata, da parte USA, una risposta ferma, decisa e rapida. In quanto maggiore democrazia liberale al mondo, gli Stati Uniti erano chiamati a dimostrare la propria capacità di difendere i principi fondamentali dello stato di diritto e della stabilità democratica, assicurando che nessun atto di violenza, o di sovversione, potesse rimanere impunito. In questo contesto, la reazione delle autorità americane era attesa come banco di prova per la resilienza delle istituzioni democratiche e liberali, e per la loro capacità di mantenere l'ordine costituzionale di fronte a derive illiberali ed antidemocratiche.
Al contrario, nonostante le numerose accuse e le gravi responsabilità riconosciute a Trump, dal diretto incitamento ai manifestanti che il 6 gennaio 2021 assaltarono il Congresso, il rifiuto di riconoscere la vittoria del candidato democratico Joe Biden nelle elezioni presidenziali del 2020, per arrivare ai ripetuti tentativi di ostacolare, in ogni modo possibile, il processo di transizione verso la nuova amministrazione, le procedure di impeachment avviate contro Trump si sono concluse con un eloquente ed imbarazzante nulla di fatto. Nonostante la gravità delle sue azioni e le implicazioni per la stabilità democratica del Paese, le iniziative di impeachment non sono riuscite a ottenere la condanna di Trump necessaria da parte del Senato, mettendo in evidenza le profonde divisioni politiche e la mancanza di consenso all'interno delle istituzioni a stelle e strisce.
In questo modo, mentre la presidenza Biden proseguiva, accompagnata da preoccupazioni riguardo all’età e capacità del presidente affrontare le sfide politiche ed economiche, la possibilità di una nuova sfida elettorale tra lui e Donald Trump, inizialmente remotissima, cominciò a diventare sempre più concreta. Diversi fattori hanno contribuito a questa evoluzione, a partire dalla sottovalutazione, da parte di molti osservatori e analisti, della resilienza politica di Trump, che aveva saputo rimanere sorprendentemente influente e saldo nonostante le difficoltà e le critiche derivanti dal suo controverso mandato. Inoltre, il timore di inasprire ulteriormente il già teso panorama politico americano, caratterizzato da una polarizzazione crescente, ha fatto sì che molte voci politiche abbiano preferito evitare un confronto diretto con Trump, paventando il rischio così di rafforzarlo invece di indebolirlo. Infine, l’opportunismo di una parte della classe politica repubblicana (e non solo) che vedeva, e vede tutt’ora, in Trump un potente strumento di mobilitazione e di consolidamento del proprio elettorato, ha contribuito a mantenerlo saldamente al centro della scena politica americana. Questo complesso intreccio di fattori ha permesso a Donald Trump di rimanere non solo il leader indiscusso del partito repubblicano, de facto un partito trumpiano, ma anche di coltivare la possibilità di una nuova candidatura presidenziale, nonostante gli scandali e la crescente polarizzazione che lo circondava.
Il messaggio simbolico per la galassia far right all’interno delle democrazie liberali, ed in particolare per la compagine europea, è molto limpido. Se gli Stati Uniti, dal secondo dopoguerra indiscusso faro delle democrazie a livello internazionale, hanno permesso ad una leadership così radicale e divisa come quella trumpiana di uscire indisturbata dagli avvenimenti del 6 gennaio 2021, e successivamente a capitalizzare a livello di consenso elettorale (più di 74 milioni di voti e ben 301 grandi elettori), lo stesso può avvenire nel vecchio continente. Se è vero che i sistemi politici europei sono molto differenti da quello statunitense, è altresì innegabile che gli incentivi volti a moderare i toni e la propaganda per cercare inclusione all’interno dei sistemi politici diminuiranno, mentre i leader ed i partiti politici di destra populista radicale e di estrema destra in Europa probabilmente saranno ben più propensi ad osare la via di una radicalizzazione sempre più spinta.
In questo senso, basta soffermarsi ed immaginare come le proposte politiche e le narrazioni di partiti di destra radicale ed estrema alla ricerca di un incremento del proprio consenso elettorale, come ad esempio l’AfD in Germania e la Lega di Salvini in Italia, potrebbero evolvere sul sentiero dello sdoganamento di teorie complottiste e di contenuti xenofobi sempre più radicali, già avviato da anni.
Da oltreoceano il secondo messaggio è l’addio al “vincolo esterno”? Se dal punto di vista simbolico la seconda vittoria trumpiana rappresenterà un fortissimo incentivo alla radicalizzazione per i partiti della galassia far right in Europa, soprattutto quelli in cerca di aumentare il proprio consenso elettorale, dal punto di vista politico-istituzionale la seconda amministrazione Trump potrebbe rappresentare un indebolimento di quello che viene spesso considerato il vero argine a possibili derive illiberali nei paesi alleati degli Stati Uniti in Europa: il “vincolo esterno”.
Il concetto di vincolo esterno viene particolarmente adoperato in relazione alla limitazione della diffusione di ideologie politiche radicali ed estremiste all’interno di uno Stato. L’appartenenza a organizzazioni internazionali come l'Unione Europea (UE) e la NATO rappresenterebbe un fattore sufficiente a prevenire tendenze illiberali nei governi nazionali. Nel caso dell’Italia, membro sia dell'UE che della NATO, il vincolo imposto dall’adesione a queste alleanze risulterebbe così stringente da rendere pressoché impossibile un’inclinazione verso l’estrema destra, limitando di fatto la capacità di azione politica del Paese.
In questa prospettiva, la recente seconda vittoria di Donald Trump alle elezioni presidenziali statunitensi potrebbe rappresentare un new deal. Infatti, essa potrebbe indicare un possibile passaggio da vincolo esterno, precedentemente menzionato, ad un vincolo molto più flebile, se non addirittura un “facilitatore esterno”, favorendo la trasformazione radicale dei sistemi politici domestici dell’UE. Tale cambiamento potrebbe essere facilitato dall’interazione con dinamiche internazionali, che, pur non imponendo direttamente una rottura, contribuiscono a creare le condizioni per una riorganizzazione in senso radicale delle strutture politiche interne.
Spesso ritenuto un governo molto radicale a livello di politica domestica su una serie di ambiti di politiche, l’attuale governo Meloni si è spesso contraddistinto per la relativa moderazione a livello di politica europea ed internazionale, in grande continuità con i precedenti governi italiani, in primis il governo Draghi, allineandosi che le direttrici proposte dalle istituzioni europee e dalla NATO. E’ quindi possibile che la strategia italiana del “doppio binario”, radicale domesticamente e moderata internazionalmente, possa vedere una graduale convergenza verso posizioni radicali anche in politica estera in presenza di un vincolo esterno così allentato, almeno per la parte alleanza con gli USA e NATO. Tuttavia, è bene ricordare che la politica degli Stati Uniti non è ascrivibile tout court all’amministrazione in carica, e che essi siano una democrazia liberale di lunga tradizione dotata di checks e balances. Lo stesso può essere detto per la NATO, un’alleanza difensiva pluridecennale composta da molti Stati che non deve essere confusa con gli Stati Uniti, pur il principale Paese che la compone.
Una riflessione del genere può essere fatta per l’Ungheria di Orbán all’interno dell’Unione Europea. L’Ungheria è divenuta uno degli esempi più discussi del modello di "democrazia illiberale", concetto che lo stesso Orbán ha promosso come alternativo alla democrazia liberale occidentale, caratterizzato da una combinazione di conservatorismo sociale, nazionalismo e una progressiva erosione delle istituzioni democratiche e dei diritti fondamentali, pur mantenendo formalmente il sistema elettorale e altre strutture democratiche. In una UE dove i partiti di destra radicale ed estrema sono in relativa ascesa, perfino in Stati Membri come Francia e Germania, e con gli Stati Uniti già avviati verso un modello politico estremamente divisivo, radicalizzato, e potenzialmente illiberale, un Paese come l'Ungheria sotto Orbán, che ha messo in atto numerose misure che limitano gli aspetti più essenziali di una democrazia liberale, potrebbe passare dall’essere un paria all’interno dell’UE a rappresentare un modello praticabile per molti altri Stati Membri.
In conclusione, è molto complicato pronunciarsi sul possibile impatto della recente rielezione di Donald Trump a presidente degli Stati Uniti sulla variegata e disomogenea galassia far right in Europa. Tuttavia, è innegabile sin d’ora questa galassia radicale nel vecchio continente abbia già ben chiaro che la seconda vittoria trumpiana significherà un generale via libera alla radicalizzazione dell’offerta politica ed un generale allentamento del “vincolo esterno”, che potrebbe addirittura agire come un incentivo verso tendenze illiberali.
Valerio Alfonso Bruno è assegnista di ricerca presso la Facoltà di Scienze politiche e sociali dell'Università Cattolica del Sacro Cuore