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Trump e il complesso tecno-industriale

Trump e il complesso tecno-industriale

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Nicolò Ferraris

 

Il 20 gennaio scorso Donald Trump ha giurato come 47esimo Presidente degli Stati Uniti d’America. Non è passato inosservata la presenza in prima fila dei rappresentanti del mondo delle cosiddette “Big Tech”, cioè le principali aziende dell’industria tecnologica americana. Oltre all’ormai onnipresente Elon Musk, capo di Tesla, SpaceX, e X, ora incaricato dallo stesso Trump di guidare il Dipartimento per l’Efficienza Governativa (Department Of Government Efficiency, DOGE), figuravano infatti anche Jeff Bezos, guida di Amazon, Tim Cook, CEO di Apple, Mark Zuckerberg, Meta (Facebook, Instagram), Sundar Pichai, Alphabet-Google, e l’amministratore delegato di TikTok, Shou Chew, al centro tra le altre cose di uno dei primi provvedimenti della Presidenza Trump.

La vicinanza tra il mondo politico-ideologico del trumpismo MAGA (Make America Great Again) e il mondo dell’avanguardia della tecnologia statunitense era nota da tempo. Da molti mesi, infatti, Elon Musk si è posto come spalla del tycoon, sia nei comizi in presenza sia, in maniera molto più costante e diffusa, sulla piattaforma X (ex Twitter), ora considerata dallo stesso Musk un baluardo della libertà di espressione, online e non solo. Tuttavia, sebbene in passato non sia stata particolarmente conciliante con le posizioni del trumpismo, anche Facebook di Zuckerberg parrebbe ora allineata maggiormente alla seconda Presidenza Trump. Il 10 gennaio scorso, quindi a dieci giorni dall’insediamento ufficiale del tycoon, Mark Zuckerberg ha annunciato con un video sulla pagina ufficiale della società che le piattaforme social di Meta non avrebbero più accettato opere di fact-checking da parte di enti terzi, allo scopo di fornire ai propri utenti la massima libertà di espressione possibile.

Non solo: secondo Zuckerberg, solo l’amministrazione americana a guida Trump, in antitesi rispetto ai quattro anni di Presidenza Biden, potrebbe ergersi a paladina della libertà di espressione garantita dalla costituzione americana, costantemente sotto attacco dalla “dittatura” del politicamente corretto e del “wokism”, vale a dire quella linea ideologica appartenente al progressismo statunitense, che pone particolare attenzione al rispetto dei diritti umani, delle minoranze etniche, sessuali e di genere all’interno della società.        

Zuckerberg, con la decisione di eliminare il controllo della veridicità dei contenuti postati sui social da parte di enti terzi rispetto alla società proprietaria della piattaforma, si è allineato in questo modo a quel mondo appartenente al trumpismo MAGA, e dunque a Elon Musk: tra le altre cose, partecipando anch’egli come ospite al podcast di Joe Rogan, The Joe Rogan Experience, considerato una grande cassa di risonanza di idee appartenenti alla destra radicale, in particolar modo statunitense. Anche il rinnovato look e stile di vita di Zuckerberg parrebbe un tentativo di avvicinarsi al mondo dell’ultradestra statunitense: la pubblica pratica di arti marziali – per cui, tra l’altro, era stato annunciato un incontro tra Zuckerberg ed Elon Musk, poi mai realizzato – ma anche il tentativo di avvicinamento ad un pubblico giovane, tendenzialmente bianco, etero e cisgender, con l’utilizzo di abbigliamento più informale, unito a gioielli vistosi. Un look sicuramente molto lontano da quello di Zuckerberg dei primi tempi, che secondo alcuni riflette la volontà di allineamento al mondo culturale e politico di Donald Trump, e dunque al trumpismo.

Il supposto allineamento del mondo della tecnologia statunitense e della politica trumpiana potrebbe porre qualche problema. Joe Biden, nel suo ultimo discorso da Presidente degli Stati Uniti, ha messo in guardia gli americani dalla formazione di un “tech-industrial complex” (complesso tecno-industriale), riflettendo in questo modo le parole di monito del Presidente Dwight D. Eisenhower nel 1956, quando, nell’epoca della guerra fredda, la democrazia americana avrebbe sofferto della presenza del “military-industrial complex” (complesso militare-industriale). Secondo alcuni osservatori, le grandi società di tecnologia, le cosiddette big-tech, potrebbero “semplicemente” approfittare della nuova ondata del trumpismo per avere maggiore via libera rispetto a investimenti pubblici, ma anche una maggiore deregolamentazione, liberandosi in questo modo dai vincoli che gli esponenti di queste società hanno imputato alla presidenza Biden, e ancora maggiormente all’Unione Europa (come ricorda Zuckerberg nel video postato il 10 gennaio). Tuttavia, tale allineamento potrebbe anche essere interpretato come una comunione di intenti tra il potere politico e tra coloro che detengono parte del mondo dell’informazione, posto particolarmente sotto l’attenzione degli studiosi per via dei fenomeni di disinformazione e misinformazione, in questo momento meno arginabili, in nome di una visione estrema di libertà di espressione e di azione, politica e non solo.

Peter Thiel, CEO di Palantir, in un articolo del Financial Times definisce la nuova presidenza Trump un’epoca di “verità e riconciliazione” (truth and reconciliation). Tuttavia, una maggiore deregolamentazione del mondo social, e una visione politica ispirata a un’idea estrema di libertà, priva di qualsivoglia vincolo, anche a danno altrui – si veda, in modo palese, l’idea di annessione della Groenlandia agli Stati Uniti – potrebbe porre ulteriori sfide alla democrazia americana. Una libertà di espressione senza vincoli sui social media potrebbe infatti aumentare il rischio di radicalizzazione e di polarizzazione politica, in un contesto già altamente polarizzato. Un tale panorama mediatico potrebbe dunque avvicinare la democrazia americana a quella “democrazia delle bolle” in cui la verità relativa di ognuno potrebbe sembrare quella assoluta, frammentando le visioni del mondo e allineandole secondo posizioni ideologiche – quella che viene anche definita come l’epoca della post-verità. 

 

Nicolò Ferraris è Program Assistant presso Aseri (Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali)

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