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Trump e Carlo: tra magnificenza e scheletri nell’armadio

Trump e Carlo: tra magnificenza e scheletri nell’armadio

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Valentina Villa

 

Pur non potendo avere, almeno per il momento, conferme archivistiche, ci sono pochi dubbi su quale possa essere stato il memo di Downing Street a Clarence House nell’imminenza della visita del 16 settembre scorso: ‘Date a Trump quello che vuole’. Un ordine – o, meglio, una richiesta di aiuto da parte del traballante governo Starmer – a cui Charles III non si è sottratto (né, d'altronde, avrebbe potuto farlo dal punto di vista costituzionale).

I due giorni sul suolo britannico del presidente Trump hanno, quindi, avuto uno spiccato carattere di eccezionalità, a partire dal fatto stesso che una visita così a ridosso dalla precedente – avvenuta nel 2019 – ha rappresentato una deroga piuttosto evidente alle consuetudini della Casa Reale per quanto riguarda i rapporti con gli altri Capi di Stato. Lo ha sottolineato anche la Casa Bianca, con l’ormai consueto tono trionfalistico, indicando come primo punto del Fact Sheet del 19 settembre: ‘President Trump is the only American president to have been granted two British State Visits’.

Per esaudire i desideri di colui che viene ancora percepito come l’uomo più potente del mondo, è stato concesso a Trump anche quel tanto ambito giro in carrozza che, nel 2019, gli era stato negato per motivi di sicurezza (come pure, prima di lui, a Barack Obama e George Bush). Tuttavia, per conciliare sogni di gloria, ordine pubblico e garanzie di protezione, la processione dorata nella Irish State Coach si è svolta all’interno della tenuta di Windsor, senza pubblico, diventando così una paradossale sfilata in solitaria o, a detta di alcuni commentatori, un imbarazzante giro di giostra per far divertire il Presidente. Il tour del parco di Windsor ha suscitato da più parti non poca ilarità ma ha compiaciuto Trump, così come da lui molto apprezzato è stato anche il momento dedicato alle riviste militari: cavalieri, artiglieri, granatieri, suonatori di cornamuse e yeomen… un affollato e inusuale sfoggio di compagnie e reparti cerimoniali.

Si è, dunque, calcata la mano sugli aspetti più tradizionalmente associati alla magnificenza della monarchia britannica (così efficaci nel coinvolgere da un punto di vista emotivo il Presidente americano, da sempre ammiratore del glamour associato alla Corona) e si è cercato di sfruttare la passione monarchica di Trump per ottenere concreti vantaggi per il paese, soprattutto in materia economica e di politica estera. Ne è prova la lunga lista di invitati per lo sfarzoso banchetto di Stato tenutosi il 17 settembre a Windsor; oltre al Presidente vi erano, infatti, Marco Rubio, il Segretario del Tesoro Scott Bessent, il tuttofare della diplomazia trumpiana Steve Witkoff ma anche Tim Cook (Apple), Jensen Huang, (Nvidia), Sam Altman (OpenAi), Satya Nadella (Microsoft), Stephen Schwarzman (Blackstone) e, piuttosto sorprendentemente, Rupert Murdoch (Fox News). Da Trump e dai leader delle tech companies più potenti al mondo – il cui valore è circa quattro volte quello dell’intera economia britannica – il fragile governo laburista si aspetta nei prossimi mesi investimenti in AI per circa 150 miliardi di sterline; il progetto, denominato ‘Tech Prosperity Deal’, è stato presentato alla stampa da Starmer e Trump il giorno seguente a conclusione di quella che,  apparentemente, è stata una visita di Stato di successo.

Trump, infatti, al di là di qualche piccola gaffe – il Re chiamato più volte Principe e avvicinato con informali pacche sulla spalla – e alcune frasi inopportune - i ripetuti riferimenti alla bellezza e all'apparente stato di salute della principessa del Galles – è stato sempre cordiale (ha quantomeno aspettato di essere di nuovo sull’Air Force One per lasciarsi andare ai soliti strali contro il sindaco di Londra, Sadiq Khan) e le proteste a Parliament Square contro il Presidente americano sono state tutto sommato contenute e pacifiche.

Eppure un fantasma ha aleggiato sopra Windsor per tutta la durata della visita: Jeffrey Epstein, le cui immagini in compagnia di Trump sono state proiettate da alcuni manifestanti per circa dieci minuti sulle mura del castello. A quasi sette anni dalla morte, l’onta di un coinvolgimento con il finanziere pedofilo continua a spaventare molte persone da entrambi i lati dell'oceano, come dimostra la recente cacciata da parte di Starmer dell’ambasciatore negli Stati Uniti Peter Mandelson, ai tempi amico di Epstein. Ma sono proprio Charles III e Trump i più vulnerabili di fronte alle accuse legate a Epstein; il re teme le continue rivelazioni circa il fratello Andrew e l'ex cognata Sarah Ferguson; Trump, la cui amicizia con Epstein è ormai nota da tempo, rischia di perdere il sostegno delle frange più cospirazioniste del variegato universo MAGA, che si aspettavano da lui la pubblicazione dei cosiddetti Epstein Files.

Ai tempi della prima visita Trump, nel giugno 2019, proprio Andrew, già noto al Presidente per via della comune frequentazione newyorkese, aveva accompagnato il presidente a deporre una corona di fiori sulla tomba del milite ignoto a Westminster Abbey ed era stato presente a una colazione di lavoro con la Prima Ministra Theresa May. Due mesi dopo Jeffrey Epstein sarebbe stato trovato morto all’interno del carcere in cui era detenuto e di lì a poco, in seguito a una disastrosa intervista con la BBC, il principe sarebbe stato de facto interdetto da ogni attività pubblica.

Non è solo Epstein, comunque, ad aver turbato i sonni dei due Capi di Stato durante la visita; l'uccisione dell’attivista repubblicano Charlie Kirk il 10 settembre in Utah e le proteste del movimento di estrema destra "unite the kingdom", che ha portato per le strade di Londra più di centomila persone il 13 settembre, hanno reso ancor più evidenti, se mai ce ne fosse stato bisogno, le tensioni interne e le fratture nell'ordine sociale e politico alle due sponde dell'Atlantico.

Non sono stati sufficienti lo sfarzo e il cerimoniale di corte, pertanto, per nascondere una special relationship in affanno. Trump ha fatto riferimento alla Palestina come uno dei pochi temi su cui non si trova d'accordo con Starmer, ma i nodi da sciogliere sono in realtà ben di più: dall'Ucraina, su cui la posizione ondivaga del Presidente si scontra con la ferrea determinazione britannica nel difendere Kiev, alla Nato, oltre che alla questione, al momento passata in secondo piano nella frenetica politica estera ad effetto del presidente, del Canada e della sua minacciata annessione come cinquantunesimo stato americano. Re Charles, durante l’apertura del Parlamento a Ottawa il maggio scorso, era stato forse perfino più esplicito di quanto gli sia costituzionalmente concesso; ‘As the anthem reminds us: The true north is indeed strong and free’, aveva tuonato dal trono canadese.

Ecco quindi che, tra problemi personali dei leader, tensioni interne ai due paesi e una situazione internazionale sull’orlo del precipizio, la distopica opulenza della visita trumpiana e la prona acquiescenza della Corte di San Giacomo lasciano aperti molti interrogativi sul futuro dei rapporti angloamericani.

 

Valentina Villa è ricercatrice in Storia delle istituzioni politiche presso l'Università Cattolica del Sacro Cuore

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