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Sudan, la lunga agonia

Sudan, la lunga agonia

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Beatrice Nicolini

 

Nel contesto del Sudan, la lunga aspirazione a una democrazia stabile e inclusiva è stata gravemente compromessa dal colpo di stato militare del 25 ottobre 2021, che ha determinato la caduta del governo del primo ministro Abdalla Hamdok e l’auto-proclamazione del generale Abdel Fattah al-Burhan quale presidente della giunta militare. L’evento ha segnato la dissoluzione delle istituzioni politiche, l’arresto di numerosi ministri e la proclamazione dello stato d’emergenza, riportando il paese allo schema tipico dei regimi autoritari dell’Africa subsahariana, caratterizzati da costituzioni militari fragili, debolezza istituzionale e confini politico-istituzionali risalenti al periodo coloniale. La giunta militare si è presentata come garante di una transizione pacifica verso nuove elezioni e interprete delle istanze popolari, ma tale rappresentazione si è rivelata sin da subito priva di sostanza, mentre nel Sud Kordofan, nei Monti Nuba e nel Darfur sono proseguite le violenze interetniche e i massacri ai danni delle popolazioni civili.

Il Sudan, uscito nell’aprile 2019 da tre decenni di regime autoritario sotto Omar al-Bashir, era già segnato da decenni di oppressione, sanzioni economiche e vulnerabilità politica. L’indipendenza dal condominio anglo-egiziano nel 1956 e la secessione del Sud Sudan nel 2011 avevano rappresentato momenti di cesura storica, ma non avevano generato una coesione nazionale duratura. La perdita di circa tre quarti della produzione petrolifera, la dipendenza da poche esportazioni come la gomma arabica e la difficile convivenza tra maggioranze arabe e comunità africane hanno aggravato le tensioni sociali e istituzionali. Nel gennaio 2021 l’adesione del Sudan agli Accordi di Abramo con Israele, pur considerata un’apertura significativa verso l’integrazione regionale, ha provocato reazioni interne e non ha determinato una reale stabilizzazione politica. Le proteste popolari, riassunte dallo slogan “nessun compromesso con i militari”, la repressione sistematica e la persistenza di movimenti di liberazione nel Darfur e nei Monti Nuba hanno rivelato la profondità delle divisioni etniche e territoriali. Nonostante i blackout informatici e le restrizioni, la popolazione della capitale ha tentato di organizzarsi attraverso reti civiche, sostenute anche dalle rimesse della diaspora sudanese.

Tuttavia, i tentativi di mediazione internazionale e le iniziative delle Nazioni Unite non hanno prodotto risultati concreti, lasciando il Paese scivolare progressivamente verso la guerra civile. In questo quadro, l’ottobre 2025 ha segnato una drammatica escalation della crisi con il massacro di El Fashir, capitale del Nord Darfur. Dopo un assedio di diciotto mesi, la città è caduta sotto il controllo delle Rapid Support Forces (RSF), una formazione paramilitare evolutasi dalle milizie Janjaweed che avevano terrorizzato il Darfur negli anni Duemila. Le testimonianze raccolte da organizzazioni umanitarie e agenzie internazionali descrivono un contesto di violenza diffusa: esecuzioni sommarie, rastrellamenti casa per casa, attacchi indiscriminati contro donne, bambini e anziani, e sospetti di pulizia etnica nei confronti delle comunità Fur, Zaghawa e Masalit. Secondo la World Health Organization, più di 460 persone tra pazienti e familiari sarebbero state uccise all’interno del Saudi Maternity Hospital, mentre immagini satellitari e riscontri indipendenti hanno documentato fosse comuni e segni estesi di distruzione urbana.

Le Nazioni Unite hanno espresso “grave preoccupazione” per il rischio di atrocità di massa e possibili crimini di guerra o crimini contro l’umanità. Con la caduta di El Fashir, la RSF ha consolidato il controllo su tutti i capoluoghi del Darfur, determinando di fatto una partizione territoriale del Sudan occidentale. Le popolazioni civili, isolate e prive di vie di fuga, sono state esposte a fame, malattie e violenze, mentre le agenzie umanitarie hanno segnalato l’impossibilità di accedere alla città. La crisi di El Fashir si colloca nel più ampio conflitto esploso nell’aprile 2023 tra la RSF e le Sudanese Armed Forces (SAF). Dopo la caduta del regime di Bashir, il Sudan aveva vissuto una breve fase di transizione ibrida, con un governo civile-militare che avrebbe dovuto traghettare il Paese verso elezioni democratiche. Tale assetto si è rapidamente disgregato quando le tensioni tra i vertici delle due forze armate si sono trasformate in un conflitto aperto. Mentre la RSF sembrava inizialmente in vantaggio, la guerra ha conosciuto fasi alterne: nel 2025 le SAF hanno riconquistato la capitale Khartoum, ma nessuna delle due parti è apparsa in grado di prevalere in modo definitivo. Il conflitto si è frammentato in una molteplicità di milizie e attori locali, sostenuti da sponsor stranieri tra cui Egitto, Iran, Russia, Emirati Arabi Uniti e Ciad, in un quadro che riflette la competizione regionale per l’influenza nel Corno d’Africa.

L’inerzia della comunità internazionale ha contribuito ad aggravare la crisi. Europa e Stati Uniti, privi di capacità di proiezione militare e di volontà politica, non sono riusciti a esercitare un’influenza significativa sugli attori del conflitto. Secondo l’analisi di C. Bianco, i paesi del Golfo, e in particolare gli Emirati Arabi Uniti, sono emersi come i principali sostenitori della RSF. Pur negando ufficialmente ogni coinvolgimento, fonti di intelligence e inchieste giornalistiche hanno documentato forniture di armi, droni e munizioni da parte di Abu Dhabi verso le forze paramilitari sudanesi, spesso attraverso il territorio del Ciad. Il sostegno emiratino risponde a logiche economiche e strategiche: la RSF controlla gran parte del commercio informale dell’oro sudanese e i principali corridoi terrestri verso il Mar Rosso, dove imprese emiratine quali DP World e AD Ports mirano a ottenere concessioni logistiche. Per gli Emirati, il sostegno alla RSF rappresenta un mezzo per consolidare la propria influenza nella regione e contrastare le reti islamiste percepite come vicine all’esercito regolare.

Le riserve aurifere del Sudan costituiscono infatti un nodo centrale nel conflitto. Dopo la secessione del Sud Sudan nel 2011 e la conseguente perdita delle entrate petrolifere, l’oro è divenuto la principale risorsa di esportazione del paese. L’assenza di una regolamentazione efficace ha favorito la creazione di un’economia parallela dominata da milizie, imprese private e reti tribali. Le aree minerarie più rilevanti si trovano nel Darfur, nel Kordofan e nella regione del Nilo e del Mar Rosso, con il Jebel Amer come epicentro economico e militare. Fin dal 2017, la RSF ha consolidato il proprio controllo sulle miniere attraverso la società al-Junaid Group, riconducibile alla famiglia del suo leader Mohamed Hamdan Dagalo. L’oro estratto è esportato prevalentemente verso Dubai, dove viene immesso nel mercato internazionale attraverso canali ufficiali e informali. Anche l’esercito regolare, mediante società parastatali, partecipa alla gestione del settore aurifero, utilizzando i proventi per finanziare le operazioni militari e la propria rete di potere. Secondo le stime più accreditate, tra le tredici e le sedici tonnellate d’oro lasciano annualmente il Sudan senza essere registrate, equivalenti a circa un miliardo di dollari di ricavi non tracciati.

In tale contesto, l’oro si configura non come risorsa di sviluppo, ma come fattore strutturale di instabilità, diseguaglianze e violenza. Gli Emirati Arabi Uniti, che nel 2022 hanno assorbito oltre il novanta per cento delle esportazioni ufficiali sudanesi, esercitano un’influenza diretta sull’economia e sulla politica del Paese. Attraverso il controllo della filiera aurifera, Abu Dhabi rafforza la propria posizione nel Mar Rosso e nel Corno d’Africa, utilizzando il commercio del metallo prezioso come strumento di politica estera. Parallelamente, l’Egitto, sostenitore dell’esercito regolare, beneficia anch’esso del flusso di oro sudanese, contribuendo alla regionalizzazione del conflitto. L’insieme di questi fattori evidenzia come la crisi sudanese non sia soltanto il risultato di rivalità interne, ma l’espressione di un sistema di interdipendenze economiche e politiche che travalica i confini nazionali. Le risorse naturali, anziché favorire la ricostruzione, finanziano la guerra e consolidano poteri armati che si sostituiscono allo stato.

La caduta di El Fashir rappresenta pertanto non solo un episodio di brutalità e orrore, ma anche un punto di svolta nella disintegrazione del Sudan contemporaneo. Le istituzioni nazionali appaiono in frantumi, le comunità locali sono lasciate senza protezione e la competizione per il controllo delle risorse continua ad alimentare la frammentazione del paese. Alla luce di tali dinamiche, il Sudan si trova oggi in una fase di profonda transizione senza direzione definita, in cui la sovranità statale è erosa dalla presenza di attori militari, economici, regionali e internazionali. L’assenza di una risposta coordinata e la persistente impunità degli attori coinvolti rendono incerto ogni scenario di stabilizzazione.

Il caso sudanese dimostra come l’intreccio tra fragilità istituzionale, competizione geopolitica e sfruttamento delle risorse naturali possa trasformare una speranza di democratizzazione in un conflitto prolungato e sistemico, le cui conseguenze travalicano i confini del paese e incidono sull’equilibrio politico dell’intera regione del Corno d’Africa e del Mar Rosso.

 

Beatrice Nicolini è professoressa ordinaria di Storia dell'Africa. Insegna Storia e istituzioni dell'Africa; Religioni, conflitti e schiavitù e Mondo dell'Oceano Indiano all'Università Cattolica del Sacro Cuore.

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