Redazione
Per più di un decennio, la Tunisia è stata considerata il laboratorio mediterraneo della democrazia post-Primavere arabe. Per l’Unione Europea rappresentava il caso esemplare di come transizione politica e cooperazione economica potessero procedere insieme. Ma la traiettoria degli ultimi anni – culminata nel “colpo di mano” del presidente Kais Saied nel luglio 2021 – ha trasformato quel modello in un banco di prova della coerenza europea tra valori e interessi.
Il rapporto EU Security Practices and Democracy Support in Tunisia, pubblicato nel 2025 all’interno del progetto SHAPEDEM-EU dello Istituto Affari Internazionali e firmato da Akram Ezzamouri, offre una lettura lucida di questa parabola: da una stagione di riforme democratiche sostenute da Bruxelles, a una politica di “realismo pragmatico” che ha finito per privilegiare la stabilità e il controllo dei confini rispetto alla promozione dei diritti e della partecipazione.
Dopo la rivoluzione del 2011, la Tunisia fu subito elevata a “partner privilegiato” dell’Unione Europea. Bruxelles mobilitò risorse ingenti – 278 milioni di euro tra il 2011 e il 2013 – per sostenere riforme della giustizia, rafforzare la società civile e rilanciare lo sviluppo economico. Nel quadro della nuova Politica europea di vicinato, la regola era “più per più”: più fondi e più accesso al mercato in cambio di più democrazia.
Tuttavia, già a partire dal 2014 le priorità europee cambiarono. Gli attentati terroristici a Tunisi e Sousse, il caos libico e l’aumento dei flussi migratori spostarono l’attenzione sulla sicurezza. Il linguaggio della “democrazia” fu progressivamente sostituito da quello della “stabilità”. Bruxelles lanciò programmi di cooperazione con il Ministero dell’Interno tunisino, come il PARMSS (Programma di modernizzazione del settore della sicurezza), finanziato con 23 milioni di euro per migliorare i controlli alle frontiere e le capacità antiterrorismo.
In teoria, tali interventi dovevano favorire la riforma democratica del settore della sicurezza, introducendo standard di trasparenza e rispetto dei diritti umani. In pratica, però, finirono per rafforzare apparati poco rinnovati, eredi diretti dell’era Ben Ali. Le unioni di polizia nate dopo la rivoluzione, invece di fungere da strumenti di democratizzazione, divennero centri di resistenza a qualsiasi cambiamento strutturale.
Il 25 luglio 2021 segna il punto di rottura. Kais Saied, invocando l’articolo 80 della Costituzione, sospende il Parlamento, licenzia il primo ministro e inizia a governare per decreto. L’assenza di una Corte costituzionale capace di arbitrare la crisi gli consente di concentrare poteri senza controllo. In seguito, Saied scioglie il Consiglio superiore della magistratura, reprime partiti e ONG, e nel 2022 impone una nuova Costituzione iper-presidenziale, approvata con un’affluenza minima.
Il deterioramento democratico, osserva il rapporto, non fu un fulmine a ciel sereno. Fu piuttosto l’esito di una transizione incompiuta, segnata da fragilità economiche, frammentazione dei partiti e sfiducia popolare verso la politica. Ma il vero test riguardava la capacità dell’Unione Europea di reagire.
All’indomani del “colpo di mano”, l’Alto rappresentante Josep Borrell richiamò Tunisi al rispetto dello stato di diritto. Tuttavia, Bruxelles optò presto per una prudente “attesa”. Mentre il consenso interno intorno a Saied restava alto, la priorità europea divenne evitare un collasso che potesse alimentare flussi migratori verso l’Italia.
Dal 2023, il dossier migratorio è tornato al centro dell’agenda. Con l’aumento delle partenze dalle coste tunisine – oltre 150 mila arrivi in Italia in un solo anno – la Commissione guidata da Ursula von der Leyen ha scelto di trattare direttamente con Saied. Su impulso del governo Meloni, l’UE ha firmato un Memorandum of Understanding da un miliardo di euro, di cui 105 milioni destinati al controllo dei confini e 150 milioni come sostegno di bilancio immediato.
Bruxelles ha presentato l’accordo come un “modello” per le relazioni con il Sud del Mediterraneo. Ma la firma ha suscitato forti critiche dentro e fuori l’Unione. Il Parlamento europeo, ONG e osservatori internazionali hanno denunciato il rischio di legittimare un regime autoritario e di finanziare strutture coinvolte in violazioni dei diritti umani. Le immagini di migranti subsahariani abbandonati nel deserto tunisino nell’estate 2023 hanno reso tangibile questa contraddizione.
L’autore definisce la parabola europea in Tunisia come un caso di “democratic (un)learning”, cioè di mancato apprendimento democratico. Nonostante il cambio di contesto, le pratiche dell’UE sono rimaste sostanzialmente le stesse: centralità dello Stato, opacità dei processi decisionali, marginalizzazione della società civile.
Tre dimensioni aiutano a misurarne la democraticità: inserimento sociale, empowerment e accountability. Inserimento sociale: le politiche europee si sono adattate poco alla realtà tunisina, privilegiando il dialogo con le istituzioni securitarie rispetto ai corpi intermedi. Empowerment: gli attori locali – ONG, movimenti, università – sono stati progressivamente esclusi dalla definizione delle politiche, ridotti al ruolo di beneficiari passivi. Accountability: le decisioni, come il memorandum del 2023, sono state negoziate senza trasparenza, né verso i cittadini tunisini né verso i Parlamenti europei.
Il risultato è una cooperazione sempre più tecnocratica e “a porte chiuse”, che rafforza il potere esecutivo tunisino senza condizionarlo al rispetto dei diritti.
La vicenda tunisina rivela anche le divisioni interne all’Unione. L’Italia ha assunto un ruolo guida nel negoziare l’accordo con Saied, spinta dalla pressione politica domestica sul tema migratorio. Altri Paesi, e lo stesso Borrell, hanno espresso “incomprensione” per la mancanza di consultazione. Il risultato è una politica estera incoerente: mentre la Commissione cerca di accreditarsi come “attore geopolitico”, gli Stati membri perseguono interessi nazionali immediati. Solo dopo le denunce di abusi da parte delle forze di sicurezza tunisine, Bruxelles ha annunciato l’intenzione di inserire clausole sui diritti umani nei futuri accordi di finanziamento. Ma, nota il rapporto, si tratta di segnali tardivi e ancora privi di traduzione operativa.
L’analisi di Ezzamouri va oltre il caso tunisino: mostra come la tensione tra principi e realpolitik attraversi l’intera azione esterna dell’Unione. L’UE, che si è sempre definita “potenza normativa”, fatica a mantenere questa identità in un contesto globale segnato da crisi migratorie, instabilità regionale e rivalità geopolitiche.
In Tunisia, la difesa dei valori democratici è stata sacrificata sull’altare dell’urgenza: contenere i flussi, evitare nuovi focolai di instabilità, garantire la cooperazione antiterrorismo. Ma questa strategia, avverte il rapporto, rischia di essere miope: il sostegno a regimi autoritari in nome della sicurezza genera, nel medio periodo, proprio quelle tensioni e migrazioni che si vorrebbero prevenire.
L’evoluzione delle relazioni tra Bruxelles e Tunisi racconta una parabola emblematica della politica estera europea nel Mediterraneo. Da promotrice di democrazia, l’Unione è diventata garante di stabilità; da mediatrice tra società e istituzioni, è divenuta partner di governi sempre più autoritari.
Il caso tunisino, conclude il rapporto, non è solo un fallimento locale, ma un sintomo strutturale: la tendenza dell’UE a subordinare la coerenza dei propri valori alle contingenze della sicurezza. Finché la democrazia resterà un obiettivo subordinato al controllo delle frontiere, la “potenza normativa” europea rischia di trasformarsi in un attore puramente reattivo, incapace di apprendere dalle proprie contraddizioni.