di Damiano Palano
Dai fronti dell'Ucraina e di Gaza non arrivano notizie incoraggianti, tanto che appare molto difficile intravedere persino minimi spiragli per una cessazione dei conflitti. Molti altri segnali indicano invece che il clima di guerra sta rapidamente modificando le priorità degli Stati. Con conseguenze che potrebbero avere ricadute anche sullo stato di salute delle nostre democrazie.
Oltre ad approvare un nuovo pacchetto di aiuti militari all’Ucraina, la Camera degli Stati Uniti ha innanzitutto dato il via libera a una disposizione che obbliga la società cinese ByteDance a vendere TikTok. Per la diffusione che ha raggiunto, il social network viene infatti considerato da Washington una minaccia. La Cina potrebbe d’altronde utilizzare i dati di milioni di utenti per finalità improprie, e inoltre l’algoritmo della app potrebbe filtrare i contenuti con finalità di propaganda o di censura. Annunciata da tempo, la misura decisa dal Congresso si inquadra peraltro in una più ampia battaglia per “riprendere il controllo” della rete.
Pochi giorni fa, il “Washington Post” ha invece diffuso un documento riservato del Ministero degli Esteri russo nel quale si indicano alcune linee di intervento finalizzate a indebolire gli Stati “ostili”. L’offensiva contro l’Occidente e a favore della costruzione di un ordine internazionale multipolare dovrebbe comportare, da parte di Mosca, solo in minima parte il ricorso a strumenti propriamente militari. Il Cremlino guarda infatti più che altro a una “campagna di informazione offensiva”, che sia in grado di investire la sfera politica e quella economica, oltre che di sfruttare le potenzialità della “guerra psicologica”.
Anche in questo caso, non si tratta di una novità. Come è ormai ampiamente noto, da più di un decennio Mosca investe molte energie nello sviluppo della propria capacità offensiva informatica, con il duplice obiettivo di influire sulle opinioni pubbliche occidentali e di rivolgere attacchi hacker contro potenze rivali. Per molti versi, si tratta solo delle armi più conosciute della “guerra ibrida”: una logica che combina strumenti militari e non militari, e che in prevalenza si propone di evitare il ricorso al conflitto aperto, puntando piuttosto a ottenere la resa degli avversari senza la necessità di combattere sul campo.
Benché spesso si consideri la “guerra ibrida” come un’invenzione del Cremlino, in realtà quell’espressione identifica (in modo generico) una logica strategica delineata nel corso dell’ultimo trentennio dapprima dagli Stati Uniti e in seguito da altre grandi potenze. Le origini affondano infatti nel ripensamento iniziato dopo la prima Guerra del Golfo: un conflitto che aveva visto l’alleanza internazionale sbaragliare rapidamente l’esercito di Saddam Hussein, ma che aveva comportato un enorme dispendio di uomini e risorse. A partire da quel momento, a Washington si iniziò a ritenere che la soverchiante supremazia tecnologica occidentale consentisse di vincere le guerre quasi senza mettere “gli stivali sul terreno”, puntando solo su strumentazioni avanzate. La guerra in Afghanistan offrì una prima parziale conferma dell’efficacia della “rivoluzione negli affari militari”. E più tardi anche la guerra cibernetica dimostrò il proprio potenziale, per esempio quando nel 2010 dissuase l’Iran dal proseguire il programma nucleare.
Al tempo stesso, gli sfidanti della potenza americana cominciarono a ritenere che, per insidiare il gigante a stelle e strisce, fosse del tutto controproducente ricorrere a un conflitto aperto. Piuttosto, ai loro occhi era più opportuno adottare strumenti prevalentemente non militari. La Russia iniziò in particolare a sviluppare una propria visione della “guerra ibrida” con l’obiettivo di rispondere alla sfida delle “rivoluzioni colorate”, percepite dal Cremlino come l’esito della manipolazione orchestrata dall’Occidente per estendere la propria area di influenza.
L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia ha riportato sulla scena una guerra tradizionale, che assomiglia molto più alle guerre di trincea della prima metà del Novecento che ai conflitti dell’ultimo trentennio. Ma non dobbiamo pensare che gli Stati cesseranno di dotarsi di armi adeguate alla guerra ibrida. Anzi, come dimostrano le notizie provenienti in questi giorni da Washington e da Mosca, è molto probabile che la guerra ibrida e la cyberwar finiranno col diventare presenze costanti. O, quantomeno, minacce che qualsiasi Stato – e dunque anche ogni Stato democratico – dovrà tenere in debita considerazione.
È proprio per questo che il nuovo contesto potrebbe comportare conseguenze rilevanti per le nostre democrazie, forse ancor più che l’accelerazione verso un’economia di guerra, evocata sempre più spesso dai leader europei. Nell’ultimo rapporto sulla libertà della rete, Freedom House – un’organizzazione che si occupa di monitorare lo stato della libertà mondo – ha registrato per il nono anno consentivo un peggioramento della situazione. I progressi compiuti nel campo dell’Intelligenza Artificiale stanno in particolare offrendo strumenti preziosi nelle mani dei regimi autocratici per imporre meccanismi di censura e per implementare tecniche capillari di sorveglianza. E, al tempo stesso, l’IA può consentire di fabbricare fake news sempre più sofisticate.
Naturalmente la distanza tra regimi autocratici come Cina e Russia e i regimi liberal-democratici rimane abissale, e sarebbe maldestro accostare esperienze così diverse. Non possiamo comunque escludere che il prezzo della sicurezza possa prima o poi richiedere la rinuncia a porzioni di libertà. Ma il rischio è che – senza che vi sia una chiara percezione di ciò che sta avvenendo – il clima di guerra ci faccia scivolare in quella direzione. E che, giorno dopo giorno, i nostri sistemi politici assomiglino sempre meno a quel “governo esposto al controllo della pubblica opinione” in cui Norberto Bobbio ritrovava il cuore della democrazia.
Damiano Palano è Direttore di Polidemos.
* Questo articolo è apparso il 24 aprile 2024 su il "Giornale di Brescia"