di Damiano Palano
L’ordigno che esplose in Piazza della Loggia cinquant’anni fa, alle dieci e dodici minuti del 28 maggio, impresse una cesura profonda nella storia italiana. La scelta di colpire una manifestazione convocata contro le violenze neofasciste rivelò in maniera nitida la matrice dell’attentato. Per molti fu inoltre la conferma che nel Paese esistevano soggetti disposti a ricorrere alla forza pur di arrestare i travolgenti cambiamenti allora in atto. E quella convinzione contribuì a indirizzare verso la fase più cupa degli “anni di piombo”, destinata a segnare la seconda metà del decennio.
La strage di Brescia rappresentò anche un momento di snodo per la discussione sulla crisi che l’Italia stava vivendo. Pochi mesi dopo, dalle colonne del “Corriere della Sera”, Pier Paolo Pasolini pubblicò il famoso articolo Io so, una sorta di j’accuse contro il “Palazzo”, ritenuto responsabile non solo delle stragi ma persino della trasformazione antropologica degli italiani. Il trauma di Piazza della Loggia indusse inoltre molti intellettuali a interrogarsi sulle motivazioni che stavano dietro la violenza. E nelle interpretazioni che vennero offerte si possono riconoscere i tasselli di una storia intellettuale in larga parte ancora da ricostruire compiutamente.
Tre volumetti che l’editrice Morcelliana manda in libreria in occasione del cinquantesimo anniversario dell’attentato offrono uno spaccato significativo di quella discussione. Il primo tassello è rappresentato dal testo di Emanuele Severino, Piazza della Loggia. Una strage politica (a cura di I. Bertoletti, Morcelliana), nel quale viene riproposto l’articolo steso dal filosofo pochi giorni dopo il 28 maggio, accompagnato da una lunga intervista raccolta nel 2014. In quell’intervento – con cui peraltro Severino iniziò la sua attività di editorialista – l’intellettuale bresciano invitava a non sottovalutare la minaccia rappresentata dal neo-fascismo. E, soprattutto, suggeriva di collocare gli eventi all’interno della logica di quello che, in seguito, avrebbe definito come il “Duumvirato”: una sorta di informale governo mondiale esercitato da Usa e Urss, in cui ognuna delle due superpotenze, puntando all’equilibrio, cercava innanzitutto di non minacciare la sfera di influenza del rivale. Ciò significava che, nel caso in cui in Italia si fosse verificata un’avanzata delle forze socialiste tale da condurle al potere, Mosca non sarebbe intervenuta, rispettando l’area dell’egemonia americana. Mentre gli Stati Uniti avrebbero riconosciuto alle forze neo-fasciste il ruolo di garanti dell’equilibrio, rendendo così effettivamente credibile la minaccia di un nuovo fascismo. La soluzione stava dunque per Severino in una graduale apertura della Democrazia cristiana al Partito Comunista, perché, dalla crisi, non si sarebbe potuti uscire “senza l’appoggio delle masse lavoratrici”, di cui il partito guidato da Enrico Berlinguer era considerato il riferimento principale.
Per l’intellettuale bresciano Mario Cassa, in La lezione del 28 maggio. Sulla strage di Piazza della Loggia (Morcelliana), l’attentato terroristico era piuttosto un simbolo dello scontro fra le speranze di redenzione in terra e il potere mondano. E la sua attenzione andava così all’utopia coltivata dalle otto vittime, in gran parte espressione dell’“ultima generazione ingenua”: una generazione per cui “democrazia significò promozione della coscienza civile e sviluppo degli strumenti atti ad esercitarla”.
A quella discussione partecipò anche Norberto Bobbio. Proprio riflettendo sulla strage, in La strage di Piazza della Loggia (Morcelliana), ebbe anzi modo di formulare un’idea che venne incorporata nella sua teoria democratica. Piazza della Loggia aveva infatti dimostrato come anche nella democrazia, accanto al potere visibile, continuasse a esistere un “potere invisibile”, un potere cioè “nascosto non solo agli occhi dei cittadini ma anche di coloro, come i giudici, che dovrebbero essere messi in condizione di aver la vista più lunga e più acuta degli altri”. Se la democrazia si qualificava come un “governo esposto al controllo della pubblica opinione”, il potere invisibile era invece una prerogativa delle autocrazie, in cui gli arcana imperii erano sottratti allo sguardo dei sudditi. Alcuni anni dopo, nel Futuro della democrazia, il filosofo torinese avrebbe inserito l’aspirazione all’eliminazione del potere invisibile tra le “promesse non mantenute” della democrazia, ossia fra gli obiettivi che le democrazie reali non sono state in grado di raggiungere pienamente. Alla fine degli anni Settanta, il “criptogoverno” – l’esistenza cioè di una sfera di potere sottratta allo sguardo della pubblica opinione – era una tara che minava la convivenza politica. “Sino a che una risposta non sarà data”, scriveva infatti Bobbio, “abbiamo il diritto di affermare che la nostra democrazia” rimane solo “una falsa democrazia”: “una democrazia apparente, che tollera, accetta, o non combatte energicamente o addirittura favorisce, forme di potere occulto, insindacabili, insondabili, imperscrutabili, che sono state sinora il carattere determinante dei vari tipi di reggimento autocratico”.
Nel mezzo secolo trascorso dal 28 maggio 1974 le nostre democrazie sono profondamente mutate. Il Duumvirato di cui parlava Severino si è dissolto nel 1989 e il mondo sembra oggi investito da una caotica transizione verso un inedito assetto multipolare. Lo scenario comunicativo è stato inoltre travolto da una nuova rivoluzione tecnologica. Ma l’obiettivo di dissolvere il “potere invisibile” rimane ancora lontano dall’essere raggiunto. Oggi il “criptogoverno” tende a manifestarsi soprattutto in altre modalità, anche per effetto della “privatizzazione” della sfera pubblica. E neppure oggi possiamo sottovalutare il rischio che i cittadini occidentali, in cambio di una promessa di sicurezza, possano rinunciare all’obiettivo di sollevare il sipario che occulta gli arcana imperii.
Damiano Palano è direttore di Polidemos
* Foto di Artem Beliaikin su Unsplash