di Damiano Palano
Ormai è chiaro a chiunque che il 24 febbraio 2022 è iniziata una nuova fase politica. Mentre si chiudeva gradualmente l’emergenza pandemica, si materializzavano nuove emergenze, probabilmente destinate a ridefinire strategie di medio e lungo periodo. L’aggressione militare all’Ucraina riportava in cima alle priorità la sicurezza militare nel Vecchio continente. Ma rafforzava anche l’idea che, per garantire davvero quella sicurezza, diventava necessario riconquistare il controllo su risorse energetiche, processi economici e competenze tecnologiche.
Non pochi ritengono che nell’ultimo anno si sia aperta una nuova fase anche per le nostre democrazie, e che in qualche misura quella lunga “recessione democratica”, iniziata più di quindici anni fa, stia conoscendo una svolta, se non proprio un’inversione di marcia. Il rapporto 2023 di Freedom House – l’istituto i cui dati hanno fornito in passato maggior sostegno alla tesi della “recessione democratica” – segnala infatti che nel corso dell’ultimo anno il ritmo del deterioramento sembrerebbe essersi ridotto. Anche il 2022 è stato – secondo FH – un anno di declino democratico, per la precisione il diciassettesimo anno consecutivo in cui i valori complessivi, relativi al rispetto dei diritti politici e delle libertà civili, hanno fatto registrare un peggioramento.
Ciò nondimeno, sembrerebbero esserci segnali positivi, perché la differenza tra Paesi che registrano un peggioramento e quelli che invece mostrano un miglioramento delle condizioni di democraticità non è mai stata tanto ristretta negli ultimi diciassette anni. In parte questo risultato è un effetto della chiusura della parentesi pandemica. Il superamento dell’emergenza sanitaria ha comportato infatti il ritiro delle restrizioni che, a partire dal 2020, avevano contribuito (soprattutto in alcuni casi) a ridurre gli spazi di manifestazione del dissenso e della partecipazione. Ma un ruolo importante è anche stato giocato da alcune scadenze elettorali che – per esempio in Lesotho e in Colombia – si sono svolte in modo regolare.
Anche se le rilevazioni di Freedom House sono molto utili, quantomeno per disporre di un quadro completo delle tendenze globali, è sempre bene tenere presente i limiti di questo genere di indagini. Per quanto possano dare l’impressione di una straordinaria “oggettività”, i dati quantitativi con cui viene “misurato” il rispetto dei diritti politici e delle libertà civili nei quasi duecento Stati del mondo non possono che essere sempre filtrati dalle percezioni “soggettive” degli osservatori. In altre parole, per quanto possano essere rigorose, queste misurazioni operano sempre a partire dalle valutazioni degli esperti dei singoli Paesi: valutazioni che sono ovviamente “soggettive” e che, soprattutto, risentono più o meno direttamente del clima di opinione nel quale ogni singolo osservatore si trova collocato. E proprio questo limite rischia di generare una sorta di “cortocircuito”, per effetto del quale, per esempio, un esperto che assista quotidianamente a discussioni sulla “crisi” della democrazia potrebbe essere indotto, nelle proprie valutazioni, a dare un peso maggiore proprio a quegli aspetti che sono più connessi all’idea di un declino democratico. Viceversa, l’osservatore che si trovi circondato da un’opinione pubblica e da una comunità accademica che sostengano in modo entusiastico le istituzioni democratiche potrebbe essere indotto a sottovalutare gli espetti più problematici e a enfatizzare quelli più positivi. In parte, è proprio ciò che è avvenuto negli ultimi anni.
Dopo il 2016, l’esito della Brexit e la vittoria di Trump hanno rapidamente portato la questione della possibile caduta delle democrazie consolidate dalle narrazioni distopiche al dibattito politologico. L’ondata populista, la polarizzazione e l’emergere di nuove formazioni di destra sono state interpretate da molti studiosi come segnali di un logoramento del tessuto valoriale delle democrazie, o anche come un sintomo di un processo di “deconsolidamento” democratico. Ora potrebbe invece verificarsi l’opposto. Dopo aver trovato (o ritrovato) un nemico, le democrazie occidentali potrebbero apparire molto più in salute di quanto non ci sembrassero qualche anno fa. E l’idea che stia cominciando una nuova e lunga contrapposizione fra democrazie e autocrazie potrebbe indurci – come cittadini, ma anche come studiosi – a interpretare positivamente, come un bicchiere mezzo pieno, quella stessa situazione che qualche anno fa vedevamo come un bicchiere quasi vuoto.
Nell’ultimo anno sicuramente qualcosa è cambiato. Ed è cambiata anche la nostra percezione dello stato di salute della democrazia. Ma dobbiamo evitare il rischio di passare dal pessimismo dell’apocalisse democratica all’autocelebrazione di una democrazia soddisfatta. Più che accontentarsi della “misurazioni” quantitative sullo stato di salute della democrazia, dovremmo essere capaci di guardare in profondità a ciò che sta avvenendo nei sistemi politici. E interpretare i mutamenti che si stanno realizzando nelle modalità della partecipazione, nella struttura dei partiti, nei meccanismi di identificazione, nella stessa concezione che i cittadini e le forze politiche hanno della democrazia. Perché solo portando alla luce le traiettorie di queste trasformazioni possiamo cogliere i segnali che ci vengono dalla cronaca politica. E sperare di capire cosa è davvero cambiato.