Intervista

Non sono solo canzonette. Populismo e musica (pop) in Italia ed Europa

Non sono solo canzonette. Populismo e musica (pop) in Italia ed Europa

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di Sara Settimio*

 

In Italia, «la “struttura di opportunità culturali” rimane piuttosto “chiusa”, o poco favorevole, per l’affermazione di una scena pop “sovranista”». Così afferma Enrico Padoan, post-doc researcher presso l’Università degli Studi di Siena, che lo scorso 27 febbraio è stato ospite di Polidemos, in occasione della presentazione del volume da lui curato, insieme a Manuela Caiani, Populism and (Pop) Music, edito da Palgrave Macmillan. A margine dell’interessante dialogo con Damiano Palano e Gianni Sibilla, abbiamo rivolto alcune domande a Padoan per approfondire i temi trattati.

 

Durante l’incontro, lei ci ha giustamente parlato della prospettiva italiana, ma come ci diceva la ricerca ha coinvolto cinque università europee, concentrandosi su Paesi dove il populismo è un fenomeno radicato. Quali sono, quindi, le tendenze europee e che analogie ci sono con il caso italiano?

Direi che nei contesti nazionali analizzati nel progetto di ricerca (Ungheria, Austria, Germania e Svezia) le differenze con il contesto italiano paiono più evidenti rispetto alle analogie. In Germania, ad esempio, vi sono diversi artisti di primissimo piano della scena pop – penso ad Andreas Gabalier o a Xavier Naidoo – che sposano, o hanno sposato, sia nel materiale da loro prodotto sia in termini di posizionamento pubblico, cause del tutto associabili a ciò che comunemente viene definito “populismo di destra”. In Italia, ciò non è, per lo meno sinora, accaduto. In termini tecnici, potremmo dire che la “struttura di opportunità culturali” rimane piuttosto “chiusa”, o poco favorevole, per l’affermazione di una scena pop “sovranista”. Nei casi austriaco e svedese, troviamo la presenza di band, per così dire, “organiche” al principale partito di destra populista, anch’esso un fenomeno che in Italia non abbiamo conosciuto. Nel caso austriaco, però, osserviamo una certa estetica ruralista-localista negli eventi organizzati dalla FPOe (ossia il partito di destra populista), che richiama molto da vicino l’immaginario tipico del leghismo prealpino e subalpino. Nel caso svedese, invece, esiste da parte del partito degli “Svedesi Democratici” un tentativo di esaltare ciò che Melanie Schiller ha definito heroic averageness, ovvero una celebrazione di gusti pop, “normali”, che assomiglia molto alla strategia estetico-comunicativa messa in atto da Matteo Salvini negli ultimi anni. Il caso ungherese è piuttosto peculiare ed estremamente interessante: grazie al pieno controllo dell’apparato comunicativo e mediatico, il governo magiaro di Orbàn ha sviluppato una vera e propria strategia di egemonia culturale, anche in ambito musicale pop. Questa strategia mira a costruire una cultura popolare legata alla celebrazione, in senso nazionalista, di generi tradizionali folk, aggiornandoli ai gusti moderni, nonché a sdoganare un rock identitario un tempo confinato alla scena underground neofascista ed oggi culturalmente legittimato attraverso numerose rivisitazioni e performances nei principali media nazionali. Se vogliamo, in Italia tutto ciò non è (ancora?) apparso, e la scena pop rimane ancora tendenzialmente ‘progressista’.

Il secondo tema di cui si è discusso è il modo in cui due partiti populisti tra loro molto diversi, ossia Lega e Movimento 5 Stelle, abbiano usato i riferimenti della musica pop nella loro comunicazione politica. Ma quanto, di fatto, anche i cantanti si espongono sulle tematiche politiche? Qual è, in questi casi, l’atteggiamento prevalente degli artisti?

Gli artisti italiani in generale rifuggono da posizionamenti partitici chiari, preferendo, caso mai, prendere posizione in termini valoriali – cercando dunque di evitare di essere associati alla “politica”, quasi sempre intesa in senso stretto, ossia come la sfera istituzionale e/o della ricerca del consenso elettorale, con una connotazione tendenzialmente negativa. In generale, gli artisti italiani tendono inoltre ad asseverare quella ‘positiva’ separazione fra “musica” e “politica” (“io nei miei testi non parlo di politica”, viene spesso ripetuto in numerose interviste pubbliche) che spesso viene auspicata anche dagli stessi attori politici (ben visibile in dichiarazioni del tenore “fuori la politica da Sanremo”, “i cantanti facciano i cantanti ed i politici facciano i politici”… oppure, dall’altro lato: “non si tratta di politica, si tratta semplicemente di musica”): una separazione che è un atto pienamente politico, ça va sans dire. Certamente, logiche di tipo commerciale paiono rilevanti: il pop è materiale che circola grazie alla sua costitutiva ambiguità, oltre che grazie ad una funzione primariamente d’intrattenimento – ragioni per le quali i messaggi, i riferimenti e gli immaginari di tipo politico presenti nel materiale pop possono risultare estremamente efficaci, giacché nella fruizione tendenzialmente abbassiamo le “antenne” che invece drizziamo quando abbiamo a che fare con materiale apertamente politico. Ad ogni modo, ai cantanti può far comodo sia dal punto di vista commerciale sia dal punto di vista politico apparire come “non-politici”, per almeno due ragioni. La prima è che è possibile rivolgersi ad un pubblico molto ampio. La seconda è che è possibile giocare il ruolo di “battitore o battitrice libero/a”, che è un ruolo particolarmente apprezzato dalle proprie fandom, come abbiamo registrato nelle nostre interviste. Spesso, determinati artisti vengono lodati per “essere in grado di esprimere la propria opinione in modo forte”, prima ancora che per il contenuto esatto del messaggio lanciato – raramente registrato o colto in modo troppo profondo.

Oltre alle classifiche delle canzoni più ascoltate dal 2009 al 2018, nel corso della ricerca avete analizzato le classifiche finali di Sanremo, un evento di un enorme portata nazionale. Quanto in questa circostanza il sistema sfrutta consapevolmente o inconsapevolmente gli artisti?

Molto dipende da cosa si intende per “sistema”… il sistema mediatico, a sua volta un termine estremamente ampio e vago? Il sistema politico? L’industria culturale? Io direi che Sanremo funziona perché fa parlare di sé. Questo gli artisti credo lo sappiano molto bene. Ciò che mi pare affascinante, specie negli ultimi anni, è il complesso intreccio di logiche mediali differenti che ruotano attorno a Sanremo, e legate anche alle molteplici piattaforme e forme di fruizione dell’evento a disposizione del pubblico.

Per concludere, questo studio può aprire nuove piste per la ricerca accademica?

È ciò che auspichiamo! Sarebbe importante esplorare maggiormente, cioè con maggior profondità e sistematicità, il legame fra populismo come fenomeno politico e produzione culturale di massa, e le modalità in cui fratture di tipo populista vengano riprodotte e negoziate attraverso materiale culturale pop e attraverso categorie di consumo e di identificazione popolari. Il populismo è anche un frame, ossia una cornice interpretativa della realtà, e vive e si riproduce anche – e soprattutto - nei modi in cui semplifichiamo, magari attraverso stereotipi, categorie sociali determinate anche sulla base dei gusti e delle preferenze culturali.

Quali letture consiglia per chi vorrebbe ulteriormente approfondire questi temi?

Oltre al volume comparativo di prossima uscita a cura di Mario Dunkel e Melanie Schiller, che si basa sul progetto di cui abbiamo fatto parte, sicuramente consiglierei i lavori di John Street sul concetto di celebrity politics, nonché alcuni lavori che esplorano il rapporto fra populismo e altro materiale culturale di massa (penso al libro collettaneo Populism in Sport, Leisure and Popular Culture, edito da Routledge). In Italia, dal punto di vista politologico, consiglierei di partire dai lavori di Mazzoleni insieme a Sfardini e Bracciale (La politica pop e La politica pop online), nonché – per una ottima discussione sui rapporti fra “pop” e “popolare” – il lavoro di Fabio Dei, Cultura Popolare in Italia. Senz’altro lasciatemi caldamente consigliare l’enciclopedica (ma accessibile) Storia culturale della canzone italiana di Jacopo Tomatis (2019, Il Saggiatore). Infine, i lavori di Pierre Ostiguy, colui che per primo e più in profondità ha colto le radici socio-culturali del fenomeno populista, sono sicuramente un riferimento imprescindibile per sociologi e scienziati politici.

 

* Studentessa del Corso di laurea magistrale in Politiche Europee e Internazionali.

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