di Vittorio Emanuele Parsi
Petrolio, immigrati ed Elon Musk. Sono questi gli unici tre punti toccati da Donald Trump nel discorso di rivendicazione della vittoria tenuto a Palm Beach nella notte elettorale americana. Per il resto si è trattato di un intervento estremamente generico, con un accenno alla necessità di superare le divisioni per marciare uniti sotto le sue bandiere, così da “tornare a far grande l’America”. Vale la pena di provare a fare qualche riflessione su questa scelta, perché potrebbe fornirci più di qualche lume sulla strada che il presidente eletto intende percorrere. Il petrolio è uscito a margine di un riconoscimento del buon lavoro fatto da Robert Kennedy Jr, il figlio del senatore democratico ucciso a Los Angeles nel 1968, ostile alla campagna vaccinale anti-Covid a un passo dal negazionismo pandemico, complottista rinnegato dalla famiglia. Trump lo ha descritto come “una persona fantastica che ci aiuterà a far tornare il nostro paese un paese in salute”, per poi aggiungere “lo lasceremo lavorare”, e infine, rivolto a lui, “lasciami il petrolio Bobby, noi abbiamo più oro liquido di qualsiasi altro paese, più della Russia. Bobby, stai lontano dal petrolio. Per il resto va bene tutto”. Si tratta di un segnale importante, nel primo discorso a braccio da vincitore, sul fatto che Trump intende rilanciare la produzione e le vendite del petrolio americano come strategia per abbassare il costo dei prodotti americani e della bolletta energetica, probabilmente facendone un asse non secondario per la lotta al caro vita. È una rassicurazione all’industria degli idrocarburi ma è anche un segnale diretto implicitamente verso l’esterno: a quel mondo “non americano” in cui Trump non sembra fare troppe differenze tra amici, partner e rivali. Per lui sono tutti, prima di tutto, competitors e i rapporti con loro devono essere orientati a una relazione dalla quale gli Usa traggano un vantaggio netto in ogni singola transazione.
Per l’Unione Europea e i suoi stati membri, che hanno apparentemente imboccato con decisione ed irreversibilmente la via della transizione green, significa molto probabilmente perdere un alleato importante e forse mettere a rischio la sostenibilità economica e sociale di un piano che appariva tanto audace quanto ambizioso. I disastri anche recenti scatenati dal cambiamento climatico attestano tragicamente quanto questa transizione sia necessaria e improcrastinabile, ma uno switch della posizione americana potrebbe renderla molto difficilmente sostenibile in termini economici e sociali. Insomma, con un’America meno coinvolta sull’agenda green, un cambiamento che fino a ieri poteva sembrare troppo timido o troppo lento, potrebbe rivelarsi un azzardo troppo veloce. Come che sia, il rischio di riaprire un dibattito iperideologico e capace solo di paralizzarci (quello in cui noi europei siamo maestri) è tutt’altro che da escludere. Per la Russia di Putin, un aumento significativo e repentino delle quantità estratte e commercializzate di petrolio americano avrebbe ripercussioni importanti. Più petrolio significa prezzi più bassi: esattamente quello di cui Trump ha bisogno ma non quello che serve a Putin, il cui bilancio federale (e la cui guerra) si regge prevalentemente sulle royalties energetiche. Per Putin, oltretutto, il calo dei prezzi del greggio non avrebbe alcuna influenza sull’altissima inflazione interna.
Ma il petrolio a basso costo significa anche un bel regalo a due delle “industrie” più energivore del nostro presente e del nostro futuro: quella della fabbricazione dei Bitcoin e quella dell’intelligenza artificiale. È tragicamente paradossale constatare come siamo riusciti a puntare le fiches del nostro futuro su due asset immateriali la cui produzione è più inquinante delle acciaierie di Taranto. Ma intanto, il minor costo dell’energia e l’aumento della disponibilità di idrocarburi, non può che far piacere a Elon Musk, che fabbricherà anche auto elettriche col marchio Tesla, ma il cui core business si sta sempre più spostando verso settori decisamente più profittevoli. Trump ha alluso a un ruolo che Musk dovrebbe ricoprire nella lotta alla sburocratizzazione dell’economia americana. Si tratta forse di un “Super-Cottarelli”? Credo che la questione sia altra e più pericolosa, ovvero la riduzione permanente di qualunque capacità del regolatore di tenere a freno gli interessi e i profitti delle major di Silicon Valley (e non solo). Con il che la prospettiva che “legittime concentrazioni di ricchezza si trasformino in illegittime concentrazioni di potere”, per citare Tocqueville, potrebbe diventare incontrastabile e irreversibile.
E i migranti? Già, quelli erano i “peanuts” o i “panem”, ma senza “circenses” (almeno per ora). Non perché il problema non esista o non sia sentito come impellente da fasce crescenti della popolazione, ma perché le soluzioni proposte (incarcerazione e deportazione di massa) appaiono costose, inumane e scarsamente praticabili.
Vittorio Emanuele Parsi è professore ordinario di Relazioni internazionali presso l'Università Cattolica del Sacro Cuore.
* Questo articolo è apparso su «il Foglio» del 7 novembre 2024.