Samuele Mazzolini
“Io sono il leone, ruggì la bestia in mezzo alla via. Tutti corsero, senza capire. Panic show in piena luce del sole”. Così, tre settimane prima delle elezioni argentine di metà mandato, Javier Milei cantava a squarciagola in un impianto di Buenos Aires gremito di sostenitori. Le note erano quelle di Panic Show, emblematica canzone del gruppo portegno La Renga, già presa – indebitamente – in prestito in diverse tappe della campagna elettorale presidenziale a simboleggiare il suo (ci)piglio leonesco. Era solo il preambolo della presentazione del libro La construcción del milagro (La costruzione del miracolo), una raccolta di saggi e riflessioni vergate dal presidente sul modello socio-economico da lui stesso avviato in Argentina. L’esibizione, un mini-concerto in piena regola con scenografia, effetti speciali e persino l’effigie dell’economista libertario Ludwig von Mises raffigurata sulla grancassa della batteria, aveva scatenato l’entusiasmo dei partecipanti, destando però lo scetticismo di chi intravedeva nel travestimento da rock star del presidente una farsa, nonché un espediente per deviare l’attenzione dai problemi che lo insidiavano.
Il presidente argentino era infatti reduce da settimane irte di difficoltà: aveva perso in maniera netta le elezioni locali della provincia di Buenos Aires a inizio settembre; uno dei capilista per le legislative del suo partito era stato costretto a gettare la spugna a seguito di uno scandalo che lo vede potenzialmente coinvolto in una rete di narcotraffico, senza che il suo nome potesse essere rimosso dalle schede elettorali, ormai già stampate; e sua sorella Karina, segretaria generale della Presidenza e una delle più fide consigliere, era stata vincolata a un caso di corruzione, dal quale la stessa avrebbe tratto il 3% sui medicamenti acquistati dall’agenzia statale per la disabilità. Qualche mese prima, inoltre, Milei aveva improvvidamente pubblicizzato una nuova criptomoneta chiamata $LIBRA, il cui valore crollò poco dopo il lancio, mandando all’aria i risparmi di chi vi aveva scommesso. Una truffa conclamata – in gergo tecnico, un caso di rug-pull – alla quale il presidente argentino aderì, vuoi per ingenuità o per complicità.
Più in generale, la sensazione che lo smalto di Milei avesse iniziato a opacarsi era diffusa. Gli stessi sondaggi suggerivano che La Libertad Avanza, il suo partito, avrebbe pareggiato o persino perso nella conta totale dei voti su scala nazionale con i rivali peronisti. È vero, Milei poteva vantare di aver portato l’inflazione dal 289% annuale di aprile 2024 al 32% di questo mese, domando contestualmente le continue sbandate del peso argentino rispetto al dollaro. Un vero e proprio incubo che minaccia costantemente i guadagni degli argentini, dando vita a un sistema valutario sdoppiato: se per gli acquisti di tutti i giorni è usato il peso, qualsiasi transazione di un certo valore (come ad esempio nel settore immobiliare) viene condotta necessariamente in dollari.
Il costo dell’approccio di Milei, tuttavia, ha iniziato a farsi sentire nella riduzione del potere di acquisto degli argentini, nella perdita di decine di migliaia di posti di lavoro statali, così come nel taglio alle pensioni e ai finanziamenti a educazione e sanità. Su questo punto, il parlamento aveva da ultimo sfidato il presidente, approvando un rifinanziamento per le università e le strutture di emergenza pediatrica, al quale Milei aveva risposto con il veto. Questo, tuttavia, era stato respinto da un ulteriore voto parlamentare sull’onda di sonore proteste di piazza. Ma poiché l’attuazione pratica spetta al governo, è destinato a restare lettera morta. Non a caso, le elezioni di metà mandato si configuravano secondo alcuni commentatori come una scelta fondamentale sulla collocazione del potere: più poteri all’esecutivo o più forza al parlamento.
La risposta delle urne non lascia scampo a dubbi: è Milei a vincere a mani basse la partita. La Libertad Avanza, con quasi il 41% su scala nazionale, è il primo partito in 16 collegi su 24, rimpolpando così lo scarno contingente parlamentare finora a disposizione del presidente. Il simbolo della vittoria è la conquista della provincia di Buenos Aires, storico bastione peronista, dove solo due mesi fa il candidato di Milei era rimasto staccato di quasi 15 punti. Il partito del presidente rimane comunque la seconda forza in parlamento dopo il peronismo, dal momento che si rinnovavano poco meno della metà della Camera dei Deputati e un terzo del Senato. Milei dovrà quindi continuare a negoziare con altre forze centriste, le quali, per quanto infiacchite dai risultati, rimangono l’ago della bilancia. Tuttavia, il clima politico scaturito da queste elezioni non lascia loro molto margine di manovra.
Resta da spiegare come sia potuto maturare un risultato che, a detta dei giornalisti presenti nei bunker elettorali la domenica sera, ha lasciato spiazzati i dirigenti di entrambi i principali schieramenti. L’intervento a gamba tesa di Donald Trump nella politica argentina non può essere sottovalutato. Poco prima delle elezioni, è stato infatti ufficializzato un accordo di swap valutario da 20 miliardi di dollari tra il Tesoro statunitense e la Banca Centrale argentina. Questo sostegno finanziario, seguito a breve distanza dall’annuncio di una nuova linea di credito fino a 20 miliardi di dollari proveniente da banche private e fondi sovrani, è stato chiaramente pensato per rafforzare la posizione di Milei in vista delle elezioni. La possibilità che l’aiuto prosegua, inoltre, è stata esplicitamente condizionata da Trump alla vittoria di Milei. Se l’ingerenza statunitense negli affari politici altrui non è una novità, è bene però chiarire che la modalità di questo intervento non ha precedenti nella storia. In questo senso, essa non solo riesuma la dottrina Monroe – che prevede una stretta vigilanza degli Stati Uniti nel “cortile di casa” latinoamericano – dopo decenni di distrazioni, ma ratifica l’indisponibilità del governo Trump ad adoperare qualsiasi etichetta diplomatica.
La mossa di quest’ultimo può non essere risultata gradevole a molti argentini. Ma la prospettiva di turbolenze sul mercato valutario, ventilata da più parti in caso di sconfitta di Milei, ha indotto molti elettori a riconsiderare le proprie intenzioni di voto negli ultimi 10-15 giorni, come evidenziato da alcuni studi emersi nel post-elezioni. In questo senso, Trump è stato decisivo. Ma al di là dell’aiuto, pesano altri due fattori. In primo luogo, quella argentina è una società fortemente polarizzata. L’anti-populismo, qui inteso come avversione al peronismo, specialmente nella sua declinazione kirchnerista (cioè facente capo all’ex presidentessa Cristina Fernández de Kirchner), è una realtà consolidata, che orienta le intenzioni politiche di una fetta consistente della popolazione. Chiunque riesca a incarnare credibilmente questa tensione, ne ottiene il derivante consenso elettorale. Sulla carta, però, esso rischia di essere volatile, come dimostrato dalla sostanziale scomparsa del PRO dell’ex presidente Mauricio Macri, ormai quasi interamente fagocitato da Milei, tanto in termini elettorali quanto di quadri dirigenti.
Tuttavia, e qui viene il secondo fattore che potrebbe nel medio periodo affiancare il primo, il presidente si sta facendo largo nella sfera della battaglia culturale. Milei inizia in questo senso a sorreggersi sempre più non solo in funzione anti-peronista, ma acquisendo tratti identitari propri, in linea con lo spirito dei tempi. Il suo fare irriverente e fuori dagli schemi, lo sdoganamento di un linguaggio colorito e politicamente scorretto lo rendono un’icona immune persino agli scandali e ai “contrattempi” del suo progetto economico. Non solo: sedimentano, specie fra i giovani, una visione politica fatta di avversione allo Stato e ai diritti sociali, esaltazione dei presunti benefici del libero mercato e negazione delle disparità di genere. Un misto sempre più egemonico di libertarismo economico e conservativismo sociale.
Chi può fermarlo? Il peronismo non sembra più esserne capace. Rappresentato dalla lista Fuerza Patria, esce chiaramente sconfitto da questa tornata elettorale, sebbene alla Camera dei Deputati riguadagni quasi tutti i seggi precedenti – a differenza del Senato dove invece la flessione è netta. Ad ogni modo, un’attenta analisi dei flussi elettorali rivela che il partito di Milei fa passi avanti sottraendo voti al PRO e alle opposizioni moderate di centro, più che a Fuerza Patria. Ma al di là della matematica elettorale, è la fenomenologia della sconfitta a rendere lampante la sostanziale incapacità del peronismo di impensierire Milei.
Il balletto di Cristina Fernández dal balcone di casa presso il quale sconta gli arresti domiciliari a caldo dopo la diffusione dei risultati, così come i discorsi dei suoi dirigenti a uso e consumo dei fedelissimi e senza alcun accenno di autocritica, mostrano la profonda incomprensione di quanto stia accadendo. Se bisognasse elencare due caratteristiche che hanno distinto il peronismo nei suoi 80 anni di storia, andrebbero menzionate la capacità di articolazione, ossia di creare coalizioni sociali eterogenee, e quella di proiettare scenari di riscossa sociale in grado di suscitare un ampio entusiasmo popolare. Quell’afflato sembra essere ormai smarrito. L’unica persona in grado di dare una scossa è il governatore della provincia di Buenos Aires, Axel Kiciloff. Gli osteggiamenti interni di cui è vittima, tuttavia, non paiono un buon viatico per il consolidamento della sua leadership.
Samuele Mazzolini è ricercatore presso l'Università Ca' Foscari di Venezia