Luca G. Castellin
Nel 1980, durante un’intervista per il documentario A is for Atom, B is for Bomb, prodotto e distribuito dalla PBS, il fisico e matematico Freeman Dyson confessa di aver sperimentato personalmente il fascino «irresistibile» delle armi nucleari. «Sentire che quell’energia è nelle tue mani» e «poterla liberare per farla obbedire alla tua volontà», è qualcosa che – riconosce amaramente lo scienziato – «dà alle persone l’illusione di un potere illimitato, ed è, in un certo senso, la causa di tutti i nostri guai». Una tale illusione di onnipotenza costituisce, secondo lo studioso del Center for Advanced Studies della Princeton University, la radice più profonda di quell’«arroganza tecnica» che emerge da una errata comprensione delle proprie capacità mentali e morali.
Il bombardamento atomico di Hiroshima e Nagasaki, nell’agosto del 1945, rappresenta un macabro esempio di questa «arroganza tecnica». Per la prima volta, infatti, l’uomo acquisisce la capacità tecnica di annientare se stesso e l’intera specie umana. In tal senso, la bomba atomica, più che un’arma, è un vero e proprio evento simbolico. Segna un prima e un dopo nella storia umana. L’inizio dell’era nucleare – inaugurata in un mattino di luglio dello stesso anno in occasione Trinity Test – non porta soltanto una nuova forma di potenza bellica, bensì modifica il rapporto dell’umanità con la politica, la scienza, la morte e il futuro. A ottant’anni da quegli eventi, il ricordo delle due esplosioni che uccisero oltre duecentomila persone (non solo nei primi istanti, ma anche nei giorni e nei mesi successivi) non può essere disgiunto da una riflessione più ampia.
D'altronde, anche l’attuale (dis)ordine internazionale non lascia spazio a illusioni sul futuro. Dopo decenni di apparente oblio, l’incubo dell’apocalisse nucleare è tornato ad affacciarsi con prepotenza sulla scena politica mondiale. L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia nel 2022 e le ripetute minacce nucleari da parte di Vladimir Putin hanno riportato nell’immaginario collettivo uno spettro che molti credevano consegnato alla storia. Di fronte a questo scenario, appare urgente non solo una risposta politica, ma anche una riflessione teorica. È possibile vivere all’ombra della bomba in un mondo che può autodistruggersi in pochi minuti?
Nel corso del secondo dopoguerra, molti autori reagiscano con inquietudine e urgenza a questa condizione inedita. Così alcuni tra i maggiori intellettuali del Novecento dedicano parte rilevante delle proprie riflessioni alla minaccia nucleare. Seppur a molti decenni di distanza, le loro analisi restano straordinariamente attuali. E rappresentano un’eredità da riscoprire nuovamente.
Tra i primi a confrontarsi con la sfida nucleare sono due figure cruciali dell’esistenzialismo francese, Albert Camus e Jean-Paul Sartre. Già l’8 agosto del 1945, per esempio, in un editoriale non firmato sulle colonne di «Combat», l’autore de L’Étranger evoca l’ascesa di una «civiltà meccanica» che ha raggiunto il suo «ultimo grado di barbarie», e denuncia l’ipocrisia di celebrare la bomba come trionfo della scienza. Secondo Camus, l’umanità si trova davanti a una alternativa radicale: vale a dire, quella fra commettere un suicidio collettivo o quella di cominciare a utilizzare in maniera intelligente le scoperte scientifiche. Qualche mese più tardi, in modo non dissimile, Sartre scorge nella bomba il compimento estremo della libertà umana. Diventato padrone assoluto della propria fine, l’essere umano «ogni giorno, ogni minuto, dovrà dare il suo consenso a vivere», consapevole di essere l’unico garante della propria esistenza.
Sempre in Francia, un approccio molto più pragmatico è scelto da Raymond Aron. L’autore di Paix et guerre entre les nations - dal momento che la guerra, nell’età atomica, diventa «improbabile» ma non «impossibile» - coglie nell’equilibrio nucleare una paradossale forma di stabilità. Per lo studioso francese il compito della politica non è tanto quello di abolire il potere distruttivo delle armi nucleari o termonucleari (un obiettivo, per molti versi, assai illusorio), quanto piuttosto quello di impedire che venga sprigionato concretamente. In tal senso, ritiene che la deterrenza, se guidata da razionalità e prudenza, sia in grado di mantenere la pace.
Dall'altra parte della Manica, invece, Bertrand Russell - che già negli anni Trenta aveva denunciato l’inutilità delle guerre moderne, sempre più orientate allo sterminio indiscriminato - con la pubblicazione del Russell-Einstein Manifesto del 1955, e poi con l’organizzazione delle Conferenze di Pugwash, cerca di mobilitare l'opinione pubblica mondiale contro la logica della distruzione, invitando tutti a «ricordare la propria umanità» e a «dimenticare il resto».
Ben più radicale è la posizione di Günther Anders, forse il più intransigente tra i pensatori dell’era atomica. Nei suoi scritti – come in Die Antiquiertheit des Menschen del 1956 – Anders introduce l’idea del «divario prometeico», ossia l’abisso tra ciò che l’uomo è in grado di fare tecnicamente e ciò che è in grado di immaginare e sentire. La nostra immaginazione e il nostro senso morale non riescono a tenere il passo con le nostre capacità tecniche. Da qui nasce anche quella che egli definisce la «cecità di fronte all’Apocalissi». Non vediamo un tale abisso perché non siamo strutturalmente in grado di pensarlo. Per Anders, viviamo in un’epoca in cui la paura è troppo debole rispetto al pericolo: non abbiamo abbastanza immaginazione per temere davvero la catastrofe. Da qui il suo appello ad avere «il coraggio di aver paura», dal momento che solo un’espansione della nostra capacità di temere – individualmente e collettivamente – potrà salvarci come genere umano.
Mentre Karl Jaspers vede nella bomba atomica il sintomo di una malattia più profonda, ossia una vera e propria manifestazione della crisi spirituale della modernità. Per il filosofo tedesco, il pericolo della bomba non è rappresentato soltanto dalla possibilità della distruzione fisica, ma dalla perdita della libertà come condizione essenziale dell’umanità. Nel volume The Future of Mankind del 1958, l’autore propone il concetto chiave di «paura illuminata». Secondo Jaspers, la consapevolezza dell’annientamento deve scuoterci dal torpore. La paura della bomba non va repressa, ma valorizzata come leva per una trasformazione etica radicale. Solo una rivoluzione interiore, capace di risvegliare la «ragione» contro il cinismo della tecnica, può salvare l’umanità. La libertà non può essere ridotta alla mera assicurazione della sopravvivenza biologica. È, anzi, la possibilità di dare senso alla propria esistenza anche di fronte all’annientamento.
Fin dall’autunno del 1945, il padre nobile del «realismo cristiano», Reinhold Niebuhr sostiene la necessità di rivedere i tradizionali canoni morali del comportamento umano, dal momento che la posta in gioco all’interno dei teatri di conflitto internazionale si è innalzata notevolmente, lambendo i confini della sopravvivenza del genere umano. Questa tensione è evidente nelle pagine dei suoi scritti, dove il teologo protestante afferma che la responsabilità morale degli statisti non può tener conto soltanto del perseguimento degli interessi nazionali, ma deve anche e soprattutto seguire l’imperativo di prevenire gli esiti catastrofici di un conflitto atomico.
Hans J. Morgenthau arriva addirittura a una conclusione paradossale. Secondo il politiologo tedesco, infatti, la bomba atomica annienta il significato della morte. In un mondo in cui schiacciando un singolo bottone si possono cancellare intere civiltà, la morte non è più un evento personale, né un sacrificio per un ideale. Essa diventa un momento di anonimato assoluto. In questo senso, la guerra nucleare toglie completamente senso all’esistenza umana, rendendola incapace di proiettarsi nel futuro. Nel celebre saggio Death in the Nuclear Age del 1961, Morgenthau sottolinea come soltanto una trasformazione profonda della coscienza collettiva – che parta dall’individuo, come agente libero e responsabile – può far fronte alla sfida radicale introdotta dall'avvento dell'era nucleare.
A ottant’anni da Hiroshima e Nagasaki, le riflessioni di questi pensatori ci restituiscono una pluralità di sguardi, che seppur diversi risultano infine complementari. Tutti condividono una consapevolezza fondamentale. La bomba atomica non è solo un’arma, ma una sfida al significato stesso della politica, della scienza e dell’esistenza umana.
Questa sfida non è finita. La minaccia non è scomparsa. Con oltre dodicimila testate ancora oggi distribuite tra nove potenze nucleari, e con il ritorno di guerre su larga scala ai confini dell’Europa e in Medio Oriente, l’era atomica non appartiene affatto al passato. Ma è un problema del presente. In tal senso, il dovere della memoria, oggi, si accompagna a quello del pensiero critico. In un’epoca in cui la minaccia nucleare torna a essere concreta, la riflessione filosofico-politica sull’esistenza in tempi apocalittici diventa più attuale che mai. Riflettere sul nucleare non ci offre certezze, ma ci obbliga a pensare, a sentire, a scegliere. Ci chiede di non voltare lo sguardo, ma di guardare dritto nell’abisso, non per caderci dentro, ma per trovare, forse, un nuovo modo di essere umani.
Luca G. Castellin, membro del Comitato direttivo di Polidemos, è professore associato di Storia del pensiero politico presso la Facoltà di Scienze politiche e sociali dell’Università Cattolica del Sacro Cuore.
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