Damiano Palano
Forse solo la fantasia di Philip K. Dick avrebbe potuto immaginare la squadra di governo che nei prossimi anni si troverà a guidare la più grande democrazia del mondo. La biografia di Donald Trump sembra in effetti davvero uscita da uno dei romanzi dello scrittore americano, così come i progetti di colonizzazione dello spazio di Elon Musk e la sua spregiudicata propaganda a favore delle formazioni di estrema destra. E naturalmente anche il compatto sostegno che le big-tech stanno offrendo al nuovo inquilino della Casa Bianca è in linea con l’immagine (non certo lusinghiera) della democrazia americana che usciva dalle pagine di Dick.
Se fino a qualche anno fa le denunce sui rischi di una deriva oligarchica giungevano da qualche isolata voce critica, oggi la percezione è radicalmente cambiata. Ed è stato lo stesso presidente uscente Joe Biden, in un discorso d’addio che probabilmente sarà ricordato a lungo, a mettere in guardia dai pericoli che, a suo avviso, vive oggi la democrazia americana. Settantaquattro anni fa, nel farewell speech pronunciato nel gennaio del 1951, Dwight Eisenhower invitò i propri concittadini a riconoscere la minaccia rappresentata dal “complesso militare-industriale”: un blocco di potere che la Seconda guerra mondiale aveva rafforzato e che lo scontro bipolare con l’Unione sovietica andava ulteriormente consolidando; ma, soprattutto, una realtà che rischiava di neutralizzare l’equilibrio dei poteri e di vanificare ogni promessa di uguaglianza. Richiamandosi a quelle parole, Biden indica oggi ai suoi concittadini un nuovo spettro. "Sono ugualmente preoccupato per la possibile ascesa di un complesso tecno-industriale che potrebbe rappresentare un vero pericolo per il nostro paese," ha detto nel suo discorso di commiato: “sta prendendo forma un’oligarchia di estrema ricchezza, potere e influenza che minaccia letteralmente l’intera nostra democrazia, i nostri diritti e le nostre libertà fondamentali, e la possibilità per tutti di avere un'opportunità equa di successo".
Alcuni analisti hanno preso sul serio l’avvertimento di Biden, sottolineando come la seconda vittoria di Trump – molto più della prima – rappresenti un punto di svolta, potenzialmente in grado di influenzare l’intera politica globale e in particolare le democrazie occidentali. Non pochi hanno invece liquidato le parole del presidente uscente, relativizzando la novità che la nuova oligarchia verrebbe a rappresentare. D’altro canto, sarebbe difficile negare il fatto che le “oligarchie” economiche rivestano da lungo tempo un ruolo cruciale nella politica americana, che nessun candidato alla presidenza possa sperare di conquistare la Casa Bianca senza il sostegno economico dei “poteri forti”, o che le big-tech, prima di passare in blocco dalla parte di Trump, non erano certo state inattive sul piano politico. La novità della nuova “oligarchia” sarebbe così davvero poco inedita.
Il grido d’allarme di Biden può essere inoltre ridimensionato semplicemente ricordando quella verità, in fondo banale, che ci dice che in politica a incidere sono sempre le minoranze. E si potrebbe anche ricordare come settant’anni fa Charles Wright Mills, con la sua indagine sulla struttura del potere nella società americana, avesse dipinto un quadro in linea con la descrizione fornita da Eisenhower: il sociologo radicale, prendendo sul serio l’avvertimento del presidente, aveva mostrato come, a seguito delle trasformazioni della società industriale, si stesse formando negli Stati Uniti una compatta ed omogenea élite (economica, militare e politica), tale da inficiare l’effettiva democraticità del sistema. L’impianto dell’analisi di Mills fu però smontato da molti critici, che misero in luce i limiti di una prospettiva distorta da un pregiudizio valoriale, se non ideologico. E i decenni seguenti, rivelando una società civile tutt’altro che soggiogata dai «persuasori occulti», smentirono con i fatti la pessimistica previsione del sociologo e confermarono che la democrazia americana era molto più vitale di quanto i suoi critici pretendevano.
Anche oggi potremmo dunque concludere nello stesso modo, ricordando a Biden che le oligarchie negli Stati Uniti hanno un enorme peso politico almeno dalla fine dell’Ottocento. E che gli allarmi sui rischi di sopravvivenza del sistema democratico, più che risultare fondati su basi realistiche, sembrano attingere a un consolidato armamentario retorico (abbondantemente sfruttato dai populisti vecchi e nuovi). Ma liquidare così il discorso sarebbe un po’ ingenuo. Perché limitandosi a guardare all’oligarchia, senza considerare il ruolo che essa gioca o il contesto in cui si muove, si rischierebbe di fare precipitare ogni analisi in una notte in cui ogni vacca diventa grigia.
Le differenze fra il “complesso-industriale” stigmatizzato settantaquattro anni fa da Eisenhower e l’oligarchia big-tech cui allude oggi Biden non riguarda infatti solo il tipo di attività da cui queste minoranze traggono i loro profitti e dunque il loro potere. In modo molto più significativo concerne il ruolo degli Stati Uniti nel mondo contemporaneo, la loro potenza militare, la loro forza economica, la loro tecnologia. L’America di Eisenhower era infatti una potenza egemone in fase di rapida ascesa: una potenza che, dopo aver vinto la Seconda guerra mondiale, aveva definito i contorni di un nuovo assetto del sistema internazionale, offrendo il proprio sostegno a garanzia della stabilità del nuovo ordine. Per quanto il nuovo impegno a livello globale andasse rafforzando l’apparato militare industriale, gli Stati Uniti erano l’architrave del nuovo ordine liberale internazionale: un ordine che, oltre a favorire il libero commercio e la diffusione della democrazia del mondo (o, quantomeno, in una sua parte), proiettava a livello globale la logica del New Deal rooseveltiano.
Gli Stati Uniti di oggi si trovano invece in una condizione profondamente diversa, ma già da molto tempo hanno imboccato la fase discendente della loro egemonia. Si tratta naturalmente di un declino “relativo”, e non è neppure detto che un simile declino debba essere costante o non possa essere rallentato da controtendenze (come già è avvenuto). Ma il punto è che gli Stati Uniti, a partire dalla crisi globale del 2008, hanno iniziato a utilizzare alcuni classici strumenti cui un egemone in crisi ricorre per rallentare il proprio declino. Hanno così iniziato a demolire, con colpi sempre più forti, l’edificio dell’ordine liberale internazionale che avevano edificato. Intaccando il principio del libero scambio con misure protezionistiche, volte a difendere l’industria americana. Sfruttando lo squilibrio di potere garantito dalla propria moneta. Ridimensionando il proprio ruolo di “gendarme del mondo” e minacciando di negare agli storici alleati europei il sostegno militare offerto per ottant’anni.
Non sappiamo naturalmente dove ci condurrà questa dinamica, né se assisteremo a una transizione egemonica analoga a quelle che la storia degli ultimi cinquecento anni ha conosciuto, né se il futuro ci riservi uno sviluppo inedito. Ma sarebbe ingenuo illudersi che un processo del genere non debba andare a incidere in profondità sulle democrazie occidentali e, in primo luogo, su quella americana. I prossimi anni, e forse già i prossimi mesi, ci daranno però più di qualche risposta sul futuro della democrazia e sul significato che questo antico termine assumerà nella crisi dell’ordine internazionale nato alla fine della Seconda Guerra Mondiale. E forse ci faranno anche capire se davvero ci dovremo confrontare con uno scenario simile a quelli che Philip K. Dick dipinse nei suoi romanzi.
Damiano Palano è Direttore dell'Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali (Aseri) e di Polidemos.