di Raimondo Neironi
A due anni dal golpe con cui il 1° febbraio 2021 i vertici del Tatmadaw (le Forze armate birmane) ripresero possesso del governo del Paese dopo quasi sei anni, il Myanmar pare rivivere le stesse difficoltà e incertezze sperimentate alla fine degli anni Ottanta del Novecento.
Le manifestazioni di piazza del biennio 1987-88 scoppiarono a causa di una crisi economica e finanziaria che il regime socialista e autarchico del generale Ne Win non seppe né impedire né risolvere. Per la prima volta nella storia della Birmania – il nome ufficiale adottato dal Paese del Sud-Est asiatico fino al 1989 – a capo di quelle proteste si pose il movimento studentesco, che raggruppava giovani dalle fervide speranze di cambiamento, determinati a porre fine alla ventennale dittatura militare e a esigere l’avvio di un processo di democratizzazione nel Paese. Le autorità non indugiarono e risposero ai manifestanti con la forza, reprimendo nel sangue le dimostrazioni di agosto a Yangon, imponendo la legge marziale e facendo imprigionare e torturare migliaia di civili. All’epoca dei fatti, Aung San Suu Kyi partecipò a quel movimento di protesta che, malgrado avesse acquisito un certo riconoscimento tra gli ambienti della disobbedienza civile birmana, era privo di un leader in grado di coordinarne l’azione e di definire gli strumenti della lotta.
Le differenze tra gli avvenimenti del 1987-88 e la situazione successiva al golpe del 1° febbraio di due anni fa risultano evidenti se si prendono in esame il contesto storico, l’esito e il livello di maturità della protesta. Tuttavia, da un superficiale esercizio comparativo, che molto spesso gli storici tendono a stigmatizzare, è possibile individuare almeno tre corrispondenze.
La prima attiene alla narrazione elaborata dai militari per giustificare il ricorso alla forza contro i manifestanti. Tra la fine di gennaio e l’inizio di febbraio, il Tatmadaw dichiarò pubblicamente che si rendeva necessario un suo intervento in quanto l’esito delle elezioni generali del novembre 2020, che avevano consegnato un’ampia maggioranza alla Lega Nazionale per la Democrazia (LND), era stato il frutto di brogli. Questa operazione di discredito dell’avversario consentì al Consiglio amministrativo di Stato – ovvero, l’organo di governo esecutivo costituito dai militari il giorno successivo al golpe – di approvare lo stato di emergenza allo scopo di costruire un contesto più stabile per nuove consultazioni nazionali.
La seconda corrispondenza è ravvisabile nella risposta della società civile di fronte all’intervento delle autorità militari. La reazione fu immediata e le proteste che sono tuttora in corso nelle piazze delle principali città del Myanmar si distinguono sia per l’ampia e variegata partecipazione popolare, sia per la capacità del movimento di disobbedienza civile di replicare, nel nuovo contesto della “rivoluzione di primavera”, le tecniche di lotta pacifica contro il regime militare esperite alla fine degli anni Ottanta, integrandole con gli strumenti del mondo attuale come Internet.
La terza costante, infine, riguarda l’entità della reazione del Tatmadaw. La giunta non ha, infatti, tardato a ristabilire l’ordine con la consueta brutalità. Le cifre fornite, con cadenza giornaliera, dall’Assistance Association for Political Prisoners – organizzazione birmana per la difesa dei diritti umani nel Paese – ci consegnano una situazione drammatica: dal golpe del 1° febbraio, le autorità militari e di pubblica sicurezza hanno arrestato circa diciannovemila attivisti politici pro-democrazia, mentre le persone perite durante le proteste di piazza sono oltre tremila, di cui circa trecento decedute per le ferite causate dalle torture ricevute nelle carceri o presso le caserme. Daw (“signora”) Aung San Suu Kyi è tuttora rinchiusa in una prigione di Naypyidaw imputata di diversi reati che, se confermati da un tribunale, la relegheranno a vita dietro le sbarre. La leader della LND non ha usufruito dell’amnistia che lo scorso gennaio ha rilasciato circa settemila oppositori politici.
Proprio a due anni dal colpo di Stato che ha sancito la ripresa della guerra civile in Myanmar, il Torino World Affairs Institute – T.wai ha pubblicato il volume dal titolo Myanmar After the Coup: Resistance Resilience and Re-invention, uno sforzo congiunto che raccoglie dodici contributi provenienti da studiosi, professionisti e attivisti. La pubblicazione, presentata per la prima volta a Bangkok lo scorso 30 novembre, fa il punto sulla situazione politica e approfondisce una serie di tematiche quali le rivendicazioni del movimento di disobbedienza civile, la riorganizzazione del movimento dei lavoratori, le ripercussioni del golpe sull’economia e sulle attività illecite di produzione e commercializzazione dell’oppio, le disattese promesse di riforma del sistema di istruzione e formazione, il complesso rapporto tra il Tatmadaw e le organizzazioni etniche armate e, infine, il maldestro tentativo dell’ASEAN di mediare tra le parti in causa.
Tra le numerose evidenze che emergono dalle ricerche delle autrici e degli autori, due meritano una riflessione. In primo luogo, a differenza del passato, il movimento di protesta è formato non solo da studenti e da attivisti pro-democrazia, bensì anche da piccoli commercianti, insegnanti, medici, infermieri e funzionari della pubblica amministrazione di età non superiore ai trent’anni. In un Paese tra i più “giovani” del Sud-Est asiatico, le nuove generazioni nate e cresciute nel contesto della lunga transizione democratica che ha condotto, nel 2015, alle prime elezioni multipartitiche, appaiono più desiderose di difendere i diritti e le libertà recentemente conquistati. In più essi, rispetto ai loro coetanei di trent’anni fa, stanno dimostrando una elevata abilità a organizzarsi e riunirsi in breve tempo, grazie soprattutto all’utilizzo dei social media.
Una seconda riflessione che può essere qui abbozzata è il “dilemma del federalismo”, ovvero le resistenze dell’etnia maggioritaria, i Bamar, a concedere un’ampia autonomia amministrativa ai sette stati federati divisi su base etnica, i cui territori sorgono lungo i confini con il Bangladesh, la Cina e la Thailandia. I provvedimenti legislativi approvati dopo la ratifica della nuova Costituzione, nel 2008, anziché avviare processi di devoluzione hanno favorito il fenomeno di assimilazione etnica e culturale a vantaggio dell’etnia maggioritaria, mancando così di rispettare il dettato secondo cui la politica e la società birmana devono rispecchiare fedelmente il complesso sistema etnico, religioso, linguistico e culturale dell’Unione. La Carta riconosce ufficialmente 135 gruppi etnici (tain yin tha, in birmano) e ne tiene fuori altri, come la minoranza musulmana dei Rohingya, perseguitata a più riprese dalle autorità e vittima di una perdurante crisi umanitaria che non ha precedenti nella storia recente dell’Asia.
Myanmar After the Coup si propone di restituire al lettore una fotografia del Myanmar, il più possibile attendibile, all’indomani del golpe. Verosimilmente, uno sforzo intellettuale di simile portata potrebbe in futuro essere dedicato alla figura di Aung San Suu Kyi, che nello spazio di due decenni è passata dall’essere considerata un’icona di pace ed emancipazione, a capo politico che ha tenuto comportamenti tanto spietati quanto discordanti per ingraziarsi il favore dei militari. Sebbene una completa valutazione del suo operato dovrà tenere conto anche delle sue personali responsabilità, non bisogna minimizzare l’esempio di lotta che la “signora” ha rappresentato per le vecchie – e continua a rappresentare per le nuove – generazioni di birmani.