di Daniela Caterina
Manuel Anselmi, Ideologie Politiche, Mondadori Università, Milano 2023, pp. 138, 16 euro.
Ma non erano finite le ideologie? È questa la domanda centrale – provocazione e spunto di riflessione al tempo stesso – attorno a cui ruota Ideologie politiche, l’ultimo libro di Manuel Anselmi (Mondadori Università, 2023). Incalzato da una serie di eventi chiave che hanno costellato un convulso 2022 – dall’offensiva militare russa in Ucraina alla vittoria elettorale di Giorgia Meloni, fino ai risvolti geopolitici del ventesimo congresso del Partito comunista cinese – Anselmi si interroga sulla necessità e sull’utilità di parlare, oggi, ancora di ideologie, partendo dalla constatazione di uno iato paradossale che ha caratterizzato due piani principali negli ultimi tre decenni: il primo, il piano dello studio e del rigore analitico, contraddistinto dal fiorire dei cosiddetti ideologies studies; il secondo, quello del dibattito pubblico, incrostato nella riproduzione del mantra di una definitiva «fine delle ideologie».
I meriti di questo breve saggio sono molteplici – primo fra tutti l’introdurre un piano di lavoro estremamente ampio e complesso volto a riportare in agenda un’analisi delle ideologie spogliata da connotazioni normative e quindi utile a scandagliare la complessità dell’attuale costellazione sociopolitica. Anselmi delinea questo programma di lavoro in tre mosse – chiarendo innanzitutto il proprio punto di osservazione nelle «Questioni preliminari» (parte prima); passando poi ad un approfondimento tanto conciso quanto variegato del «Profilo storico-concettuale» delle ideologie (parte seconda); che serve infine a tracciare le sinergie tra l’utilizzo di questo concetto e lo studio di «Problemi» che connotano l’attuale prolungata fase di crisi delle democrazie rappresentative (parte terza). Ognuno di questi passaggi del piano di lavoro delineato da Anselmi contiene spunti centrali ad affrontare il passo successivo, dei quali – per questioni di spazio – mi limiterò ad evidenziare alcuni tratti principali.
Nella breve sezione dedicata alle «Questioni preliminari», spicca la rivendicazione dell’utilizzo del termine ideologie al plurale, così come la distinzione tra ideologie politiche e termini spesso superficialmente usati in maniera interscambiabile, quali cultura politica o immaginario politico. Questa breve ma necessaria operazione di disambiguazione ristabilisce con successo sia l’urgenza che la fecondità di un approccio morfologico allo studio delle ideologie, teso ad indagare coordinate e peculiarità della loro natura, diffusione e funzionamento. Le implicazioni di questo posizionamento di Anselmi – in manifesta adesione alla sensibilità morfologica degli studi di Michael Freeden – sono molteplici. Innanzitutto, le categorie di tempo e spazio emergono come centrali, dunque rendendo imprescindibile l’utilizzo di strumenti di analisi sensibili a variazioni diacroniche, geografiche e scalari – come sottolinea la discussione di Anselmi del «paradosso di Mannheim» e della stessa presunta «fine delle ideologie». Inoltre, il punto di vista dell’autore implica un’intrinseca apertura interdisciplinare che si riverbera nell’intero blocco successivo.
Ne è prova tangibile la carrellata di pensatori al cuore della trattazione del «Profilo storico-concettuale» delle ideologie politiche. Partendo dagli ideologues dell’epoca tardo-illuministica per arrivare fino a Freeden e Thompson – passando per Marx ed Engels, Mosca e Pareto, Mannheim e Althusser, solo per citarne alcuni – Anselmi conduce il lettore in un viaggio tanto breve quanto incalzante che valica i confini disciplinari per scandagliare l’apporto centrale dell’antropologia (Geertz) e della sociolinguistica (van Dijk) allo studio di un fenomeno necessariamente complesso quale le ideologie come visioni del mondo. Non a caso, una tappa centrale del percorso di questo secondo blocco passa per l’eredità testuale di Antonio Gramsci. L’interpretazione gramsciana di ideologia che emerge dai Quaderni del Carcere contiene già in sé tutti i germi di un approccio morfologico ante-litteram, diametralmente opposto alla connotazione peggiorativa di ideologia come «falsa coscienza» legata alla ricezione marxista del termine. Sebbene Anselmi non espliciti le molteplici connessioni tra l’accezione gramsciana di ideologia e il proprio impianto di lavoro morfologico ispirato a Freeden, un ulteriore merito di questo saggio è il saper evidenziare la fecondità di un «ritorno a Gramsci» in linea con il fiorire di studi di taglio sociologico, antropologico e politologico al di fuori dei confini italiani. A parte la trattazione esplicita nella sezione a lui dedicata, il libro di Anselmi è infatti intriso di termini e suggestioni radicate nei Quaderni. La lettura stessa che Anselmi dà della presunta «fine delle ideologie» come una «formula retorica corrispondente a una strategia di mascheramento da parte di una ideologia specifica egemone» (p. 18), quale il neoliberismo, necessariamente riporta a Gramsci. Più precisamente, ad un programma di lavoro volto all’operazionalizzazione empirica di una vera e propria costellazione di concetti gramsciani – tra cui spiccano egemonia e senso comune (p. 121).
Nel terzo blocco, questa cassetta degli attrezzi diventa imprescindibile per far luce sui «Problemi» – tra gli altri, l’ibridazione ideologica della sinistra e la pluralità di voci nel dibattito sulle ideologie green e (neo-)femministe – che caratterizzano l’attuale contesto storico. Qui il lavoro di Anselmi si distingue per un’accurata – e accorata – operazione di disentanglement tra i concetti di ideologia e populismo. Lungi dall’essere un esercizio meramente filologico, l’autore riporta così in agenda per studiosi e osservatori la necessità di guardare dentro un fenomeno, il populismo, di cui si è spesso dimenticata e/o trascurata l’enorme varietà di caratteristiche e implicazioni ideologiche morfologicamente intese. La popolarità della definizione con cui Cas Mudde etichetta il populismo come thin ideology, insiste Anselmi, «ha disincentivato uno studio analitico del rapporto tra ideologia e populismo», arrivando a consolidare «una concezione quasi feticistica del populismo, disconnessa dalle dinamiche sociali e dalle trasformazioni dei sistemi democratici» (p. 70, enfasi mia). Le frontiere di ricerca evidenziate da Anselmi nelle conclusioni rinforzano così l’urgenza di non sovrapporre ideologie e populismo, e di sporcarsi le mani in un’analisi empirica – ma dalle salde radici teoriche – del come, quando e perché, davanti all’evidenza di un proliferare di «ideologie dominanti e ideologie emergenti, ciascuna cerca di raggiungere una egemonia ma non tutte ci riescono» (p. 119).
In conclusione, le implicazioni del lavoro di Anselmi sono estremamente vaste e ramificate. Riportare in agenda lo studio delle ideologie – in un’accezione plurale, non valutativa e morfologica del termine – apre infatti al dialogo interdisciplinare in una varietà di campi. Come scriveva Freeden già nel 1994 in Political concepts and ideological morphology, è questa un’operazione che va realizzata «sia prendendo in prestito da filosofi e linguisti il rigore analitico nei confronti di parole e concetti, sia da storici, sociologi culturali e antropologi la capacità di collocare temporalmente e spazialmente tali parole e concetti» (p. 163, traduzione mia). C’è da augurarsi che il piano di lavoro proposto da Anselmi raggiunga e motivi le voci più diverse a prender parte a questo progetto di rilievo trasversale. Perché le ideologie, no, non erano finite – né potrebbero mai.