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Le sfide dell'Europa

Le sfide dell'Europa

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Antonio Campati

 

Il tasso di retorica con il quale si parlava del futuro dell’Unione europea era diventato davvero eccessivo. In ogni occasione, l’utilizzo di alcune formule rimandava a un insieme di messaggi stereotipati che ormai infastidivano anche i più convinti sostenitori della causa europeista. Utilizzare i verbi al passato è forse una decisione che pecca di ottimismo, eppure davanti alla riconfigurazione degli equilibri internazionali non c’è spazio per pensare il domani dell’Europa solo con immagini evocative. La storia, ancora una volta, si è incaricata di porre le istituzioni europee davanti a scelte decisive. Con il ritorno dell’uso della forza e con l’utilizzo di forme di potere sottili e incontrollate non è possibile procedere seguendo tragitti segnati decenni fa. Il tema non è solo quello di modificare i trattati, di migliorare il funzionamento delle istituzioni, di avvicinare le cittadine e i cittadini ai valori europei. Tutti auspici importanti, ma in gioco c’è qualcosa di più, ossia il ruolo dell’Europa nel mondo. La presidente della Commissione Ursula von der Leyen è ben consapevole che la situazione è determinante, perché ricevendo il premio Carlo Magno ad Aquisgrana ha detto che «la storia non perdona né l’inazione né l’esitazione». Si tratta di una chiara presa di coscienza e ci auguriamo sia in grado di condurre verso orizzonti effettivamente degni di un cambio di passo. Non come è avvenuto talvolta in passato, quando non sono mancati momenti nei quali l’inazione e l’esitazione hanno caratterizzato la gestione di situazioni complesse che invece richiedevano atti coraggiosi, anche di rottura.

Qualcosa però sta effettivamente cambiando, non per altro perché è la realtà che lo impone. I rapporti con gli Stati Uniti d’America devono essere riconfigurati, per non dire di quelli con la Russia e con i paesi mediorientali e asiatici. Non si deve però cadere nell’errore di credere che d’un tratto il quadro cambierà, perché i processi politici richiedono una paziente e lunga tessitura. Tale consapevolezza non è sempre radicata, perché la frenesia del dibattito quotidiano induce a illudersi che basti un vertice, una conferenza, addirittura un’intervista per cambiare il corso della storia. Sì, alcune occasioni possono essere determinanti, ma spesso hanno dietro una preparazione meticolosa.

Ciò ci induce a porre una domanda: chi deve incaricarsi di portare a termine un cambiamento così arduo per l’Unione europea? Non c’è una risposta scontata. Gli egoismi nazionali non hanno finora favorito la nascita di una classe politica realmente europea. Ci sono eccezioni, ma a livello sistemico la riprova sta nel fatto che ad ogni elezione per il Parlamento europeo ci troviamo di fronte a dibattiti orientati in gran parte su questioni interne. Se davvero non vogliamo cedere all’inazione, dobbiamo allora investire oggi sugli europei di domani. E la retorica sulle giovani generazioni deve essere superata da un’azione concreta capace di indicare una chiara e inequivocabile prospettiva che oggi non può non essere l’educazione alla pace. Non a caso, pace è la prima parola pronunciata da papa Leone XIV davanti al mondo. Il confine con la retorica è ancora una volta labile, eppure ciò che sembrava retorico fino a qualche anno fa, ora non lo è, perché la pace non è più garantita.

Dunque, se c’è un tema dirimente sul quale avviare una riflessione profonda è il rapporto tra democrazia e pace, non semplicemente rispolverando le teorie che le mettevano in relazione stretta e inscindibile, ma cercando di capire quali sono le giuste declinazioni per tenere insieme ciò che indichiamo oggi (non decenni fa) con il nome democrazia e la pace. Significa certamente ripensare il funzionamento delle istituzioni, ma anche sviluppare una sensibilità educativa in grado di prendere atto del fatto che la pace è un obiettivo verso cui tendere e, come la democrazia, non è un dato acquisito per sempre. È ormai sempre maggiore la consapevolezza della provvisorietà di entrambe, a partire dalla quale ci auguriamo possa essere scritto un capitolo inedito della storia europea. L’intento ultimo è ben chiaro: fare in modo che i verbi al passato utilizzati nelle prime frasi di questa riflessione restino tali e non debbano essere declinati di nuovo al presente.

 

Antonio Campati è Ricercatore di Filosofia politica presso Università Cattolica del Sacro Cuore

* Questo editoriale è apparso sul quotidiano «Avvenire» venerdì 30 maggio 2025.

Foto di Markus Spiske su Unsplash

 

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