Editoriale

La torre e la piazza

La torre e la piazza

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di Antonio Campati

 

L’intellettuale è forse una delle vittime più illustri della disintermediazione. Nell’epoca dell’istantaneità, infatti, non c’è spazio per le sue riflessioni profonde e argomentate. Dopo decenni durante i quali si cercavano affannosamente chiavi di lettura per capire il mondo, che potevano giungere solo dall’intensa attività di chi il mondo provava a capirlo nelle sue dinamiche più profonde, oggi possiamo fare da soli. Sofisticatissimi sistemi informatici ci consentono di reperire fonti da un capo all’altro del mondo senza staccarci dalla nostra scrivania, persino documenti prodotti dai governi e dalle organizzazioni internazionali sono a portata di mano e li possiamo interpretare con le nostre chiavi di lettura, con le nostre conoscenze, con quello che un tempo veniva chiamato il proprio bagaglio culturale. L’intellettuale che media, che interpreta, che ci interroga e ci provoca è desueto, anzi rischia di limitare la nostra capacità critica, ormai pienamente sviluppata grazie agli stimoli che ci giungono tramite l’accesso istantaneo a un numero considerevole di dati e di informazioni. Ma è davvero così?

Quella appena accennata è una ricostruzione semplificata, che coglie tuttavia un punto, il fatto che l’intellettuale è sempre più considerato un attore che stride con la forma mentis dell’uomo contemporaneo improntata a interpretare ciò che ci circonda con la misura dell’immediatezza, cioè senza il supporto di quei mediatori culturali, politici e sociali che apparivano indispensabili fino a pochi decenni fa. Indubbiamente, i social sono complici di questa impostazione di fondo, specie quando ci inducono a reagire subito a un post, a un tweet o a un video, senza la necessaria riflessione, semplicemente facendoci guidare dall’istinto. Ma la questione è decisamente più complessa.

Recentemente, Giorgio Caravale ha scritto un libro sulle ragioni che, in Italia, hanno indotto politici e intellettuali a ritenere di poter fare a meno gli uni degli altri (Senza intellettuali. Politica e cultura in Italia negli ultimi trent’anni, Laterza 2023). Per Caravale, dopo la fine della cosiddetta democrazia dei partiti, l’intreccio tra politica e cultura si è dissolto e ha lasciato il posto a una gelida diffidenza. Infatti, generalmente gli intellettuali e i politici si ignorano, anche se mantengono alcuni legami, ma sono flebili, circoscritti a qualche iniziativa da promuovere in funzione di un interesse da cogliere e rappresentare nell’immediato. Non è un caso che da almeno tre decenni venga denunciato lo sguardo corto delle élite politiche italiane, l’incapacità, cioè, di avere una visione di lungo periodo che vada ben oltre il risultato (e le analisi) dei flussi elettorali. E una delle cause di questo sguardo corto è proprio dovuta all’assenza di momenti e luoghi che dovrebbero mettere in contatto stabilmente i politici e gli intellettuali per riflettere insieme sui grandi temi, sulle idee che dovrebbero contraddistinguere le varie proposte politiche. Ci troviamo a dover rimpiangere il vecchio intellettuale organico, pronto persino a sacrificare la sua autonomia di giudizio pur di difendere qualsiasi posizione presa dal partito o dal leader di riferimento? Sarebbe un auspicio troppo ardito, anche se non sono del tutto estranee al dibattito attuale figure che (legittimamente) si rifanno a modelli simili. Ma ciò che preme qui rilevare è capire se effettivamente gli intellettuali possono essere utili alla democrazia.

La risposta è indubbiamente positiva perché gli intellettuali alimentano il dibattito pubblico, informano e provocano i cittadini, che quindi sono indotti a porsi domande e a tentare essi stessi di fornire delle risposte a partire da ciò che apprendono dal libero confronto delle idee. Com’è noto – ma non è mai abbastanza per ricordarlo – il pluralismo è uno degli elementi cardine della democrazia. Dunque, che gli intellettuali siano dei propulsori per il dibattito pubblico è fuor di dubbio. Ciò che però è smarrita è la loro capacità di essere ben piantati nella realtà e al tempo stesso lontani da essa. Cioè quella capacità di mediazione – per tornare al punto di partenza – che è forse il loro tratto distintivo e che oggi appare sempre più sbiadito.

Infatti, coloro che accentuano l’importanza di ciò che esprime la piazza – cioè trasmettono con i loro interventi gli umori delle persone – sono quelli che in fondo tradiscono la loro missione di intellettuali intenti a favorire un dibattito pubblico informato e consapevole. In un certo qual modo, agiscono da portavoce dei cittadini, supplendo a un compito che dovrebbe essere di altri. Gli intellettuali – per andare oltre il contingente – devono anche distaccarsi dalla realtà. Ricorrendo a un’immagine di Erwin Panofsky, Sabino Cassese (Intellettuali, il Mulino, 2021, p. 93), sottolinea che, di tanto in tanto, l’intellettuale deve salire sulla celebre turris eburnea perché l’uomo che sta a terra ha il potere di agire, ma non sempre il potere di vedere, mentre l’uomo sulla torre ha il potere di vedere ma non quello di agire, tuttavia, da lì, può mettere in guardia. È una posizione importante, simile a quella della sentinella, che per suonare l’allarme deve necessariamente rimanere in cima alla torre se vuole avere la possibilità di avvistare il nemico.

L’equilibrio tra l’umore della piazza e la riflessività della torre è cruciale sia per l’intellettuale che offre alla vasta opinione pubblica il suo sapere disciplinare, sia per l’intellettuale che è più direttamente coinvolto a comprendere la politica, persino per l’intellettuale ad personam (per riprendere un’espressione di Caravale), perché se questi non ha bene in mente l’importanza di un simile equilibrio rischia di suggerire al leader che coadiuva non una prospettiva, ma un’emozione. È vero che gli elettori si mobilitano soprattutto se si sentono chiamati in causa emotivamente, ma un sano dibattito democratico non dovrebbe consumarsi solamente attorno agli umori delle tifoserie, ma anche tenendo presenti le prospettive ideologiche avanzate dalle classi politiche che si contendono il potere.

Accenniamo quindi a un ultimo, delicato, aspetto, quello relativo al ruolo degli intellettuali come produttori di ideologie. Se il nesso tra intellettuali e politica è debole, allora è più che legittimo domandarsi cosa resta dell’ideologia, cioè di quell’armamentario ideale, valoriale, ma anche retorico, che soprattutto gli intellettuali dovrebbero mettere a punto. Non a caso, questo l’interrogativo è al centro del convegno che Polidemos (in collaborazione con l’Osservatorio Dane e la Sisp) ha organizzato presso la sede di Brescia dell’Università Cattolica il 4 e 5 maggio prossimi. È forse arrivato il momento di archiviare definitivamente la suggestione che evoca la fine delle ideologie per comprendere appieno la loro importanza nella definizione di ogni regime politico, democrazia inclusa. Non si riflette mai abbastanza sul fatto che l’accentuata disaffezione dei cittadini nei confronti della politica sia dovuta anche alla mancanza di chiarezza rispetto all’orizzonte ideale e ideologico dei partiti e dei leader. Non si evoca certamente un ritorno alle cosiddette ideologie forti, ma forse è auspicabile che l’opinione pubblica possa dibattere e dividersi su proposte politiche ben definite, che non siano la somma di buoni auspici, né l’adattamento di antichi programmi secondo le logiche che dominano sui social. In questa prospettiva, gli intellettuali risultano essenziali, a patto però che camminino sulla piazza e di tanto in tanto salgano sulla torre.

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