Recensione

Alla ricerca della Sibilla

Alla ricerca della Sibilla

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di Chiara Continisio 

 

Silvia Ballestra, La Sibilla. Vita di Joyce Lussu, Bari-Roma, Laterza, 2022, pp. 235, 18 euro

 

L’incontro di Silvia Ballestra con Joyce Lussu risale al novembre del 1991. Forse a prima, se si tengono in conto la maestra delle elementari che leggeva alla classe una delle sue poesie e una conversazione telefonica tra Joyce e il suo editore, a cui le era capitato di assistere. Ma forse a prima ancora: le loro famiglie sono imparentate, hanno entrambe salde radici in quell’ambiente anglo-marchigiano fiorito attorno ad alcune signorine inglesi arrivate nell’Ottocento che sposarono poi uomini della zona, e l’albero genealogico disegnato dalla stessa Joyce e conservato in casa della nonna paterna gliel’aveva più volte ricordato da bambina, nell’incanto dei suoi rami dorati con i ghirigori dei nomi.

È Joyce, allora settantanovenne, che manda a chiamare Silvia, ventunenne scrittrice esordiente e già famosa. Aveva in mente un libro di storie di donne fatto da donne, e quella sera tardo autunnale riunisce a casa sua alcune di loro. Dopo quel giorno, si incontreranno moltissime volte, intrecciando un’amicizia preziosa, credo, per entrambe. Per Joyce, che in quegli anni andava volentieri a parlare nelle scuole di poesia, letteratura, Storia e delle storie che aveva raccolto vissuto e incrociato nella sua vita, e che si sente di affidare a quella più giovane “collega” i suoi ricordi, le sue opinioni, pezzi della sua vita e, in definitiva, di sé. E preziosa anche per Silvia, che, dopo averla sfiorata e tanto attesa, le resta accanto, assumendo via via con maggiore chiarezza il compito di raccogliere e trasmettere la sua eredità intellettuale ma, più ancora, umana e direi spirituale in senso lato.

Dopo quel libro, arrivarono lunghe conversazioni, alcune registrate su nastro, il gesto del ricercatore davanti al suo testimone. Alcune di quelle cassette vengono poco dopo sbobinate e pubblicate nel 1996, Joyce vivente, con un’operazione editoriale di basso profilo, ma potentissima: niente note, niente commenti, una scarna introduzione che ricorda come gli interventi sul testo siano pochi e finalizzati solo a rendere la lettura più scorrevole e i ringraziamenti dell’autrice, per lasciare che la voce di Joyce, le sue inflessioni, le sue impazienze, la sua personalità, le sue opinioni sul mondo e sull’Italia, oltre che sul ruolo della poesia, sulla politica, sulle donne e il femminismo e vari stralci della sua vita, emergessero e parlassero di lei senza mediazioni. Un’operazione senza dubbio condivisa dalle due donne, che vi misero ciascuna la sua parte.

Profondamente diverso questo secondo libro, dove Joyce Lussu è sia la straordinaria protagonista del Novecento, che la Sibilla di Silvia Ballestra (che scrive di lei come della «mia Joyce, la mia Sibilla»), e dove il ruolo della scrittrice è determinante nel come, più ancora che nel cosa, raccontare. Si tratta infatti di una biografia, in primo luogo, scritta sulla base delle opere edite e delle carte di Joyce (nata, ricordiamolo, Gioconda Salvadori), che contribuisce significativamente a sottrarne la figura e la vita da quella semioscurità dove è scivolata, forse per via del fatto che dopo la grande stagione resistenziale e il suo impegno per la liberazione dell’Italia dal nazi-fascismo, dove ebbe un ruolo di primissimo piano che gli Alleati volentieri le affidarono, Joyce esce dalla scena politica e comincia una vita nuova.

Più vite nuove, a dire il vero, a volte parallele, a volte in successione. Di tutto questo, Ballestra rende conto: della famiglia costretta cercare riparo in Svizzera dopo un’aggressione ai danni del padre Willy e del fratello Max, da cui riceve la preziosa eredità dell’antifascismo, della fede nella libertà e dell’indipendenza del carattere; della sua istruzione, della formazione delle sue idee e della sua personalità; dell’incontro determinante con Emilio Lussu, di molti anni più grande di lei, con cui ebbe dapprima un incontro fugace e poi una vita intera insieme, parte della quale in incognito, all’estero, impegnati in operazioni complesse e pericolose, prima del matrimonio e di un figlio amatissimo; del suo incontro con la Sardegna, epitome della condizione delle masse di diseredati di tanta parte dell’Italia, e con l’etnografia; della sua attività di traduttrice di poeti di vari paesi del mondo, accomunati dal fatto di essere nei propri paesi oppositori di regimi dittatoriali e per questo o in esilio o perseguitati; della sua attiva vicinanza ai processi di decolonizzazione in Africa; del suo amore per la natura, per la casa di famiglia, per i viaggi; della sua scrittura e del suo impegno per le donne.

Ma su tutto prevale il timbro del rapporto tra Ballestra e la “sua” Joyce, la “sua” Sibilla. Se non è lei la prima a usare questo epiteto per circoscrivere il ruolo e l’identità di una donna che è stata molte cose, Ballestra intende non solo omaggiarla ma consegnarla così alle generazioni a venire, come avrebbe forse voluto la stessa Joyce. Il riferimento è a una figura femminile molto cara a Joyce, che se ne era occupata nei suoi studi, realmente esistita, tra l’altro proprio negli Appennini marchigiani (dove appunto si trovano i Monti Sibillini) e tutt’altro che mitologica.

La saggezza della Sibilla mescola la memoria con la preveggenza, il passato e il futuro, e non rifugge dal presente e dalle sue domande ed è per questo preziosa in una dimensione, anche questa cara a Joyce, positivamente utopica, intesa cioè a produrre il movimento che conduce avanti, verso un mondo migliore, verso un non ancora che potrebbe esserci e chiede solo di intraprendere la strada giusta, senza dimenticare da dove si viene. Ed è questa la cifra che a mio avviso, Ballestra vuole restituirci di questa donna complessa e formidabile.

Può piacere e può invece non piacere la forte presenza della scrittrice, che si interpone qua e là nel racconto, a volte per lunghi tratti, non sempre riusciti e anche con espressioni non felicissime («Ce la vediamo la Joyce che abbiamo conosciuto fin qui, in questo ruolo? No. Col cavolo»). Conta di più che «le Sibille scompaiono e poi riemergono, lasciano tracce, sono esistite ed esistono. Basta andarle a cercare». E Ballestra l’ha fatto.

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