recensione

La guerra dell'informazione

La guerra dell'informazione

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di Michele Gimondo

 

Nelle ultime settimane, in seguito all’annullamento delle elezioni presidenziali da parte della Corte Costituzionale di Bucarest, il dibattito sulle ingerenze straniere nei processi elettorali è tornato in primo piano. Come prevedibile, il caso rumeno ha sollevato polemiche e interrogativi sul rapporto tra valori liberaldemocratici e competizione geopolitica: un connubio problematico e in continua evoluzione, al centro anche dell’ultimo libro di David Colon, La guerra dell’informazione. Gli stati alla conquista delle nostre menti, recentemente tradotto in italiano per Einaudi. Apparso in Francia nel 2023, il saggio ripercorre la storia degli ultimi trent’anni – dalla prima guerra del Golfo all’invasione dell’Ucraina – dalla prospettiva dello scontro informativo tra le principali potenze mondiali, offrendo alcune chiavi di lettura e coordinate teoriche utili anche per interpretare gli avvenimenti più recenti. Colon si muove con disinvoltura tra fonti eterogenee, rivelandosi abile tessitore: dopo aver preso in esame documenti strategici russi e statunitensi, cita post e comunicati stampa delle ambasciate cinesi; si richiama alle opere di Nye e di altri importanti teorici russi, da Messner a Panarin; cita articoli accademici sul ruolo dei meme nelle guerre contemporanee; menziona reportage e indiscrezioni sulle fabbriche dei troll di San Pietroburgo, così come sulle campagne mediatiche dei servizi segreti inglesi. Il risultato è un’opera densissima eppure avvincente, che si candida a diventare un punto di riferimento per gli studiosi in materia.

Protagonisti dei capitoli iniziali sono gli Stati Uniti, che negli anni Novanta perseguono con successo il dominio globale dell’informazione: Washington riesce infatti a controllare infrastrutture e tecnologie comunicative, diffondendo a livello planetario narrazioni, tendenze culturali e modelli di consumo. La dominanza informativa, teorizzata dapprima in ambito militare, «viene gradualmente estesa a tutti gli aspetti del potere, sulla base della convinzione che il controllo dei mezzi di comunicazione sia il metodo più adatto a garantire la supremazia americana nel mondo» (p. 32). Al volgere del secolo, il progetto unipolare comincia tuttavia a incontrare forti resistenze. Minacciate dal soft power americano, le dirigenze di Mosca, Pechino e Teheran intraprendono una serie di misure finalizzate a rinsaldare il controllo governativo sulle reti di comunicazione. E nel giro di qualche anno passano al contrattacco, non cercando più, soltanto, di blindare i rispettivi spazi informativi dalle ingerenze esterne, bensì di destabilizzare i governi occidentali mediante operazioni informatiche e psicologiche. Riavvolgendo il nastro degli ultimi decenni alla luce della contemporaneità, ci si rende conto di aver varcato ormai da tempo le soglie di una fase storica nuova, contrassegnata da uno scontro informativo totale. L’autore scrive a tal proposito che, mentre «la Guerra fredda, dal 1945 al 1991, è stato un periodo di tensione geopolitica caratterizzato dalla contrapposizione tra due modelli, quello liberaldemocratico e quello socialista sovietico, e dalla decisione di evitare a qualsiasi costo un confronto diretto, […] la guerra dell’informazione, dal 1991 a oggi, è invece un periodo di tensione altrettanto elevata tra regimi autoritari e democratici, con un confronto diretto ma sempre al di sotto della soglia del conflitto aperto, che riguarda tutte le dimensioni della sfera dell’informazione» (p. 341).

Se colpisce l’accezione ampia che “guerra dell’informazione” assume nelle righe precedenti, d’altra parte il concetto mantiene per buona parte del testo un significato più circoscritto, volto a designare una specifica forma (per quanto articolata al suo interno) di esprimere la conflittualità. Da questo punto di vista, il saggio ha il merito di delimitare e ricondurre sotto un’unica macroetichetta – “guerra dell’informazione” appunto – una serie di concetti oggetto di continue sovrapposizioni semantiche: “guerra informatica”, “guerra psicologica” e “guerra cognitiva”. A ben vedere, non si tratta che di operazioni rivolte ad aspetti diversi dello stesso dominio. La “guerra dell’informazione” può infatti essere combattuta lungo tutto lo spettro dell’informazione, andando a bersagliare – a seconda delle intenzioni dell’attaccante, e di volta in volta con metodi differenti – i cavi sottomarini e i server informatici, le redazioni dei giornali, i talk show televisivi e i social network, lungo un continuum che dalla componente materiale del mondo digitale arriva fino al cervello umano.

E non è l’unico merito dell’opera. Resoconto storico, glossario strategico e comunicativo, La guerra dell’infomazione finisce al contempo per stimolare l’immaginario spaziale del lettore, suggerendo che i reali confini di uno Stato non siano riconducibili alla sua giurisdizione territoriale, e neppure alla sua proiezione geopolitica in senso stretto, ma siano il riflesso della sua influenza a livello globale: confini dunque mobili, continuamente ridefiniti dal numero, dalla localizzazione, dalle attività online e offline dei cervelli umani sotto il suo controllo. Esemplari in questo senso le pagine dedicate alla guerra cognitiva cinese e in particolare a TikTok, «l’arma informativa più formidabile mai concepita» (p. 335). Inoltre, descrivendo i vari attori coinvolti nella militarizzazione dell’informazione, dai servizi di intelligence specializzati nella disinformazione alle agenzie preposte alla diplomazia pubblica, fino agli eserciti di hacker e troll arruolati dai governi, Colon ci ricorda che in ogni sistema politico esiste una dimensione opaca e oscura del potere, a cui è difficile accedere, e che sempre rischia di trarre in inganno il profano, persino quando illuminata da un’apparente fuga di notizie. Nelle sue pagine, tale analogia strutturale non si traduce però in un’equiparazione tra liberaldemocrazie e autoritarismi, essendo le prime maggiormente vincolate al rispetto di norme e procedure.

In fondo, quello di Colon è anche un saggio militante, politico. Lo si capisce in modo particolare leggendo l’ultimo capitolo, "Verso uno stato di emergenza informativa", dove il percorso storico delineato nel corso del libro sfocia in una dolorosa presa di consapevolezza: gli stati democratici rischiano di perdere la battaglia per i cuori e le menti. E ciò non dipende solo dal fatto che le autocrazie possono coordinare più efficacemente, quasi avvalendosi di una regia unica, la vasta rete di attori coinvolti nelle operazioni ibride. Un altro motivo è che le società occidentali non hanno riconosciuto in tempo la minaccia, con il risultato che la loro apertura mediatica si è trasformata in vulnerabilità strategica. «È giunto il momento – scrive allora l’autore – di uno stato di emergenza informativa, ossia l’adozione di misure eccezionali per difendere le nostre libertà, che rischiano di scomparire, e per proteggere le nostre menti dall’ingerenza di regimi autoritari. […] È urgente cambiare il paradigma a favore del concetto di difesa informativa, non per censurare i contenuti all’interno dei confini, come nei regimi autoritari, ma per proteggere i cittadini dalle interferenze dei regimi dittatoriali» (pp. 342-343). Un discorso che, se verrà accolto con favore da molti, e magari salutato come un ragionevole compromesso tra libertà e sicurezza, suonerà immancabilmente orwelliano a molti altri, soprattutto ai più critici nei confronti delle istituzioni. Il dibattito è aperto.

 

Michele Gimondo è Dottorando presso la Scuola di Dottorato in "Istituzioni e Politiche" dell'Università Cattolica del Sacro Cuore

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