Editoriale

L'Italia dopo il populismo

L'Italia dopo il populismo

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di Damiano Palano

 

 

Lo shock pandemico e il ritorno della guerra nel Vecchio continente hanno probabilmente chiuso il decennio «populista» della politica italiana, aperto dalla crisi del debito sovrano del 2011 e culminato nelle elezioni politiche del 2018 e nella formazione del governo «giallo-verde». I contorni della nuova Italia «post-populista» rimangono però ancora poco nitidi. E non è affatto certo che l’interminabile «transizione» italiana sia indirizzata verso una stabilizzazione.

Alcune rilevazioni suggeriscono innanzitutto che, negli ultimi anni, proprio per l’effetto combinato dell’emergenza sanitaria e dell’irruzione della guerra, il rapporto degli italiani con le istituzioni sarebbe almeno in parte cambiato. Secondo il rapporto annuale Gli italiani e lo Stato realizzato da Demos & Pi, il tasso di fiducia nelle istituzioni risulta complessivamente stazionario, anche se, rispetto al crollo registrato in occasione degli anni della più severa crisi economica (2011-2013), persino i partiti e il Parlamento ottengono valori meno nettamente negativi. Anche la percentuale relativa alla «soddisfazione sul funzionamento della democrazia» risulta notevolmente migliorata rispetto al passato recente. La maggioranza degli intervistati (53%) esprime infatti una valutazione positiva. Per quanto tali dati debbano essere sempre letti con grande cautela, rimane in ogni caso significativo che nel marzo 2013 la percentuale dei soddisfatti fosse del 28% e che cinque anni dopo si attestasse al 36%. La soddisfazione sulla democrazia non può che essere solo un indicatore molto generale, anche perché non è detto che gli intervistati attribuiscano lo stesso significato al termine «democrazia». È anzi piuttosto interessante che il campione interpellato da Demos & Pi si divida a metà tra coloro che ritengono che in un regime democratico l’incarico di governare debba essere affidato a tecnici con competenze riconosciute (47%) e coloro che invece pensano che tale ruolo spetti a politici eletti dai cittadini (47%). Meritevole di attenzione è inoltre il fatto che il 62% degli intervistati (il valore più elevato degli ultimi anni) reputi indispensabile che il paese sia guidato da un «leader forte». Tanto che, come ha annotato Ilvo Diamanti, la democrazia desiderata dagli italiani sembra sempre più una democrazia «impolitica» e «personalizzata».

Se questi dati sembrano dunque indicare persino qualche parziale miglioramento rispetto alla situazione stazionaria del recente passato, il quadro offerto dalle ultime scadenze elettorali è meno confortante. Gli esiti richiedono certamente uno sforzo interpretativo, anche perché sarebbe necessario decifrare le motivazioni che hanno spinto una quota importante di italiani a sostenere un partito che cinque anni fa aveva un ruolo largamente minoritario e su cui pesava (e continua a pesare) l’ombra di un passato ingombrante. Ma sarebbe forse ancora più rilevante interpretare il dato relativo all’affluenza. Un dato che alcuni anni fa avremmo probabilmente definito «sconcertante» e che avrebbe indotto a suonare le campane a martello per l’esplosiva emergenza democratica, oggi tende ad apparire a molti come fisiologico, come la manifestazione di una democrazia matura, nella quale una scarsa affluenza al voto non deve in alcun modo essere scambiata per un sintomo di «malessere democratico».

In effetti, non è detto che livelli elevati di astensione rappresentino necessariamente un indizio del cattivo stato di un sistema politico. Molte democrazie consolidate convivono da molto tempo con tassi molto bassi di partecipazione al voto, senza che ciò abbia comportato un indebolimento delle loro istituzioni. Il fatto che alcuni cittadini oggi non ritengano indispensabile andare a votare potrebbe inoltre rappresentare il segnale ulteriore di una «secolarizzazione» del voto: in altre parole, anche la vittoria del candidato meno gradito (di destra o di sinistra) non viene percepita come una minaccia epocale, contro la quale è vitale mobilitarsi e mobilitare i propri conoscenti. E dunque anche noi, come hanno sostenuto autorevoli commentatori, dovremmo deporre le armi della retorica più allarmista, per interpretare l’astensione come uno dei comportamenti possibili di un elettorato maturo, secolarizzato e dunque in grado di valutare serenamente l’opportunità di recarsi o meno alle urne.

Nonostante queste spiegazioni ‘ottimistiche’, è però più che legittimo sospettare che, dietro tassi di astensione così eclatanti, si nasconda qualcosa di più grave. Perché il dato dell’astensione è solo uno dei valori di una cartella clinica tutt’altro che rassicurante. Una cartella che ci dice che, nel corso del tempo, il tasso di iscrizione ai partiti è vertiginosamente caduto e che, contestualmente, è cresciuta una disaffezione nei confronti della politica che spesso abbiamo visto tramutarsi in rancore e disprezzo. Questa cartella ci dice inoltre che – per una serie di trasformazioni articolate – non solo si è indebolito il legame tra la politica e i territori, ma si è anche inaridito il tessuto partecipativo della nostra società. Ed è forse per tale motivo che – senza catastrofismi – è necessario cercare di capire, indagando dentro le pieghe di una società sempre più individualizzata e ‘disintermediata’, se le basi della democrazia italiana sono ancora solide, o se gli anticorpi di cui la nostra società appariva dotata non si stiano indebolendo.

Il panorama dell’«Italia post-populista» tratteggiato dal rapporto annuale del Censis non delinea un quadro rassicurante. I fattori di incertezza emersi negli ultimi anni – dal Covid alla guerra – sembrano aver riorientato le priorità degli italiani verso «una rinnovata domanda di prospettive certe di benessere», in un quadro in cui comunque cresce l’insofferenza verso «i privilegi di alcuni ritenuti oggi odiosi». Alcuni immaginari farebbero sempre meno presa. «Le grandi narrazioni di ascesa individuale», si legge nel rapporto, «non catturano più: le simbologie mobilitanti del turbo-consumismo sono destituite di vigore», mentre tra gli italiani prevarrebbe «la voglia di essere se stessi, con i propri limiti, ispirandosi a una filosofia di vita molto semplice: lasciatemi vivere in pace nei miei attuali confini soggettivi». Al tempo stesso, la società italiana non registra mobilitazioni collettive significative. «Piuttosto emerge il massificarsi di una ritrazione silenziosa dalla partecipazione ad ambiti costitutivi del vivere civile», una ritrazione che riflette una passività divenuta cifra comune della soggettività. Dinanzi alla successione di pandemia, guerra, crisi energetica e ambientale, l’89,7% degli intervistati prova infatti «una tristezza di fondo», mentre il 54,1% «avverte la forte tentazione di restare passivo, senza prendere iniziative, blindandosi nel privato». Tanto che a definire il carattere degli italiani di oggi sarebbe la «malinconia», «il sentimento proprio del nichilismo dei nostri tempi, corrispondente alla coscienza della fine del dominio onnipotente dell’‘io’ sugli eventi del mondo, un ‘io’ che malinconicamente è costretto a confrontarsi con i propri limiti quando si tratta di governare il destino».

Molto probabilmente questa «malinconia», come la definisce il Censis, è anche la conseguenza della disillusione patita da quella parte della società che, negli anni Dieci, aveva visto nei «populisti» – principalmente, nel Movimento 5 Stelle e nella Lega guidata da Matteo Salvini – gli interlocutori in grado di rigenerare la democrazia italiana. Ma ci dovremo comunque interrogare più a fondo sulla «ritrazione silenziosa dalla partecipazione». Perché si tratta probabilmente di una «ritrazione» dalle radici profonde, destinata ad accompagnarci a lungo. E perché forse è proprio questo lato del profilo ancora enigmatico dell’Italia post-populista a nascondere le incognite più insidiose.

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