Editoriale

L’equilibrio difficile fra rappresentanza e governabilità

L’equilibrio difficile fra rappresentanza e governabilità

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di Antonio Campati

 

Esattamente quarant’anni fa, nel 1983, i membri del Gruppo di Milano guidato da Gianfranco Miglio pubblicavano due tomi – con un titolo emblematico: Verso una nuova Costituzione – all’interno dei quali raccoglievano il frutto del loro lavoro di ricerca svolto nel corso del triennio precedente. Gli autori erano studiosi di rango – Giovanni Bognetti, Serio Galeotti, Giorgio Petroni e Franco Pizzetti – che intervenivano nel dibattito scientifico e pubblico con analisi e ipotesi di riforma istituzionale piuttosto radicali, tanto da suscitare reazioni vivaci e contrastanti. Ne sono una testimonianza già le diverse «opinioni» di Augusto Barbera, Domenico Fisichella, Federico Mancini, Giuliano Urbani e Leo Valiani raccolte in appendice al secondo tomo. Per molti versi, l’eco di quel dibattito è udibile ancora oggi. Infatti, chi ha ancora memoria di quel lavoro ne ricorda i lineamenti fondamentali per criticarli aspramente oppure tenta di attingere da essi idee per una nuova proposta di riforma del nostro sistema istituzionale.

Uno dei principali temi attorno a cui ruotava la riflessione del Gruppo di Milano era relativo al deficit di autorità e di capacità decisionale dei governi italiani. Pertanto, non erano escluse ipotesi drastiche come l’elezione diretta del primo ministro, con un conseguente ampliamento dei poteri del governo, comunque combinato con un rafforzamento dei poteri di garanzia del Capo dello Stato e della Corte costituzionale. E l’introduzione di meccanismi codificati capaci di ridurre l’instabilità parlamentare.

Anche l’osservatore più distratto delle vicende politiche, che si trovasse a sfogliare i tomi del 1983, non avrebbe difficoltà nel riconoscere come molte idee avanzate in quelle pagine e le relative proposte di modifica siano ancora sul tappeto del dibattito politico italiano. Anzi, proprio l’elezione diretta del Presidente del Consiglio – considerata da taluni come la soluzione al problema dell’instabilità e del deficit di autorità – è uno dei motivi di più forte attrito nell’ultimissima disputa sul tema. Infatti, la proposta di riforma istituzionale avanzata dall’attuale maggioranza parlamentare ha generato una rigida levata di scudi da parte di ampi settori dell’opposizione (anche se non tutti con lo stesso grado di contrarietà). Staremo a vedere come si svilupperà il dibattito, se si riuscirà a coagulare una maggioranza ampia in Parlamento per l’approvazione, se invece la decisione ultima spetterà ancora ai cittadini tramite un referendum, o se, infine, l’ipotesi proposta risulterà solo uno strumento di tattica politica tra i partner della maggioranza. Non è affatto saggio avventurarsi in previsioni (si vedano, per esempio, le considerazioni di Paolo Pombeni su mentepolitica).

Ciò che invece è importante fare è isolare all’interno dell’ormai antico dibattito sulle riforme un tema dirimente che è proprio quello relativo al ruolo del Presidente del Consiglio dei Ministri, non con intenti meramente polemici, ma per capire se una riflessione storica, da un lato, e analitica, dall’altro, possa essere utile per comprendere se c’è effettivamente bisogno di introdurre delle modifiche all’attuale assetto istituzionale e quali ingranaggi andare a toccare. Com’è noto, le proposte avanzate dal Gruppo di Milano non si concretizzarono in alcun modo. Ma è indubbio che posero in maniera chiara il tema del ruolo del Presidente del Consiglio in relazione all’annosa questione della governabilità.

Con ogni probabilità, se il dibattito continuerà a ruotare attorno alla polarizzazione tra coloro che ritengono imprescindibile la governabilità – la necessità di avere governi stabili e duraturi – e quelli che invece sostengono la rappresentatività – la necessità di consentire la più ampia rappresentanza proporzionale – non si faranno grandi passi in avanti. Non tanto perché i termini della questione non siano corretti, anzi, ma perché vengono considerati di volta in volta senza tenere presente la complessità del contesto: dalla conformazione istituzionale alla legge elettorale; dal funzionamento delle Commissioni parlamentari al sistema dei partiti. È ovvio che non si può considerare pienamente matura una democrazia nella quale – ogniqualvolta c’è un cambio di governo più o meno traumatico – una parte del Parlamento e alcune forze politiche mettono in dubbio la legittimità dell’azione dell’esecutivo e del suo capo, nonostante il sostegno dei voti di maggioranza. Le regole del gioco devono essere chiare e accettate da tutti.

Dunque, è innanzitutto necessario prendere atto che il Presidente del Consiglio incarna un’istituzione incompiuta, perché strutturalmente flessibile ed elastica, non regolata nei dettagli. Non a caso, tale è il punto di partenza dal quale si sviluppa la recente e rigorosa analisi di Francesco Clementi intitolata: Il presidente del Consiglio dei ministri. Mediatore o decisore? (il Mulino, 2023). Il sottotitolo evoca la polarizzazione tra rappresentatività e governabilità che prima si richiamava e che, in realtà, è quasi inevitabile proprio per l’incompiutezza di questa istituzione: nel corso dei decenni, il Presidente del Consiglio è apparso ora «debole», ora «forte» e, infatti, come ricordava Miglio nelle considerazioni finali del lavoro redatto dal Gruppo di Milano, gran parte del dibattito sulla democrazia italiana si divide grossomodo tra i sostenitori del modello di «democrazia debole» e i fautori di una «democrazia forte».

La prospettiva neoparlamentare tracciata da Clementi prevede una revisione costituzionale per una «definitiva stabilizzazione» della figura e della posizione del Presidente del Consiglio dentro l’alveo della forma di governo parlamentare, scegliendo una maggioranza che esprima un premier indicato sulla scheda, non eleggendo invece a prescindere un capo. Il leader nominato Presidente del Consiglio dovrebbe ricevere la fiducia individuale, rendendolo così libero di formare il suo governo e di revocare i ministri, e prevedendo eventualmente anche la sfiducia costruttiva e la possibilità che, di fronte alla bocciatura di una questione di fiducia da lui presentata in Parlamento, possa proporre lo scioglimento anticipato al Capo dello Stato. In altre parole, Clementi individua innovazioni per un intervento «circoscritto e misurato».

Dalle brevi considerazioni fin qui esposte – che chiederebbero uno spazio ben più approfondito – ci sembra di poter riassumere tre elementi utili per continuare il dibattito. In primo luogo, non è mai sufficiente lo sforzo (anzi, il piacere) di poter attingere alle discussioni del passato, più o meno convincenti secondo la nostra personale prospettiva, ma tutte ugualmente utili per arricchire il bagaglio di idee (il dettagliatissimo lavoro del Gruppo di Milano è solo un esempio, ma si potrebbero citare altri studi o interventi, come quelli di Roberto Ruffilli, tra l’altro, citato più volte da Clementi). In secondo luogo, qualsiasi dibattito sulla governabilità e sulla stabilità dei governi deve partire dal presupposto che – almeno fino ad oggi – il Presidente del Consiglio incarna un’istituzione incompleta, che quindi prevede un grado di elasticità, regolato da situazioni contingenti. E, pertanto, non si può gridare allo scandalo ogni volta che esso varia. Infine, in terzo luogo, proprio perché tale elasticità è regolata dalla contingenza, le ipotesi di riforma dovrebbero basarsi su una scelta chiara di fondo: o si sostengono interventi circoscritti che prendono atto della situazione attuale oppure, al contrario, si deve dichiarare subito la predilezione per un cambio di forma di governo. Purtroppo, sono poche le ipotesi che prendono avvio da una radicale scelta di fondo – per tante ragioni: convenienza del momento, tattica, incapacità di una visione d’insieme. Eppure, sarebbe necessario che questa chiarezza venisse esplicitata, altrimenti si rischia di ragionare, ancora una volta, a vuoto.

 

 

 

 

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