editoriale

L'antidoto del realismo critico

L'antidoto del realismo critico

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di Damiano Palano

 

Nell’ultimo quindicennio le analisi dedicate alla “crisi” della democrazia sono andate a formare una sorta di nutrito genere letterario. Non si tratta certo di un motivo del tutto originale, perché le diagnosi critiche sullo stato di salute della democrazia hanno pressoché costantemente accompagnato le diverse stagioni politiche del Ventesimo secolo. La crisi finanziaria del 2008 impresse però alla discussione un’impronta diversa, perché le analisi non si limitavano a lamentare l’insufficiente “democraticità” di regimi politici che pure si proclamavano nel mondo alfieri della causa democratica. La domanda che iniziava a emergere era più radicale, perché alcuni cominciavano a chiedersi se i mutamenti economici, sociali e geopolitici – di cui la crisi del 2008 era in una certa misura una manifestazione – non annunciassero la conclusione del “secolo democratico”, o, meglio, di quella stagione in cui, quantomeno in una parte del mondo, lo sviluppo economico aveva convissuto con l’estensione della partecipazione e l’innalzamento dei livelli di benessere. Se lo slittamento progressivo verso la “post-democrazia” non sembrò a lungo trovare argini, né tantomeno antagonisti in grado di alterare la tendenza, l’ondata populista degli anni Dieci portò però sulla scena un composto instabile di risentimento, paura e rivolta che molti hanno interpretato come un preoccupante segnale di crisi delle istituzioni democratiche, se non addirittura come l’annuncio di un’involuzione autoritaria o quantomeno “illiberale”. E la specifica situazione degli Stati Uniti ha rappresentato in questo senso il riferimento inaggirabile, perché proprio il più grande paladino della democrazia del mondo ha mostrato lacerazioni politiche profonde, tali da mettere a rischio secondo alcuni la stessa tenuta del tessuto sociale.

Mappando lo stato di salute della democrazia nel mondo, diversi studiosi hanno avanzato l’ipotesi che, a partire dalla metà del primo decennio del secolo, abbia preso origine una “recessione democratica”, consistente nella riduzione complessiva del numero di regimi democratici presenti nel mondo. Benché non siano mancate le critiche a una simile lettura, le principali rilevazioni che tentano di misurare in termini quantitativi il livello di democraticità nei quasi duecento Stati del mondo hanno in gran parte confermato un dato d’altronde piuttosto evidente. E cioè che la “terza ondata” di democratizzazione è finita circa vent’anni fa, che il numero di democrazie nel mondo ha cessato complessivamente di crescere e che, soprattutto, sono emerse nuove potenze autocratiche, le quali propongono modelli politici più o meno radicalmente alternativi alla democrazia liberale.

Anche l’ultimo rapporto realizzato da V-Dem fornisce alcune conferme a questo quadro complessivo. Il 72% della popolazione mondiale (cinque miliardi e settecentomila persone), secondo V-Dem, vive oggi in regimi autocratici. Dopo più di due decenni, ci sono più “autocrazie chiuse” che democrazie liberali, mentre il livello di democrazia, in rapporto alla popolazione mondiale, risulta essere sceso al valore del 1986.

Questi dati, come altri analoghi proposti da vari centri di ricerca ed équipe di studiosi, offrono elementi importanti di riflessione, ma – anche al di là delle difficoltà implicite nella misurazione “quantitativa” della democrazia, della libertà e dell’uguaglianza – rischiano talvolta di smarrire lo sguardo d’insieme di un mutamento che coinvolge vari livelli. Anche per questo, è necessario adottare una prospettiva capace di considerare le traiettorie (politiche, economiche, culturali) di lungo periodo, come propone per esempio Carlo Galli nel suo Democrazia, ultimo atto? (Einaudi).

L’obiettivo di Galli è comprendere perché oggi le democrazie occidentali «paiono deficitarie per eccesso di opposti»: l’intento è cioè «capire cosa è andato storto, e perché, nel processo di democratizzazione del mondo che pareva a portata di mano dopo il 1989», «fare affiorare le strutture profonde della democrazia reale, in quanto specifico assetto moderno socio-economico e politico-culturale, e mostrarne le interne contraddizioni e anche – cosa diversa – le aporie epocali, le difficoltà strutturali della modernità, che confliggono con la moderna pretesa di trasparenza». Le contraddizioni sono relative principalmente alle disuguaglianze emerse nel corso dell’ultimo trentennio, mentre le aporie «intransitabili» sono connesse all’alternanza di politicità e politicizzazione, alla prevalenza della tecnica, al ruolo politico delle emergenze, all’incombere della guerra. Contraddizioni e aporie tutt’altro che inedite, ma che, scrive Galli, «emergono con tanta veemenza perché oggi siamo di fronte alla crisi di una forma specifica di democrazia, appunto la democrazia liberista, che si pretendeva spoliticizzata (senza veramente esserlo), che praticava una libertà ristretta all’utile, e che per adattarsi al riemergere prepotente del politico sta prendendo un’altra e diversa forma politica – semi-oligarchica, semi-autoritaria, postdemocratica».

Il ritratto che Galli delinea non può certo essere definito confortante. La dissolvenza dei cardini fondativi della democrazia (libertà, uguaglianza, trasparenza), insieme alla crisi delle istituzioni liberaldemocratiche (principalmente la divisione dei poteri e la centralità del parlamento), configura «un processo di de-democratizzazione»: «un indebolimento complessivo della forma politica, che lascia vedere, dietro il permanere delle procedure e delle istituzioni della democrazia, la realtà di nuove oligarchie, in cui il potere reale si sposta verso conglomerati economici di dimensioni gigantesche, che trovano nei vertici e nei meandri della politica gli interlocutori delle loro strategie, e a volte si sostituiscono, e che hanno nei poteri mediatici la fonte di narrazioni legittimanti». Ma il «realismo critico» con cui Galli guarda alla scena contemporanea non conduce a un pessimismo senza alternative, perché semmai scaturisce dalla convinzione che «la democrazia non è garantita, e deve trovare la propria concretezza nella consapevolezza pubblica della complessità, nella percezione del chiaroscuro, nel corpo a corpo con la contingenza e con le opacità della politica».

Come invita a fare Galli, dobbiamo guardare alle nostre democrazie e al loro stato di salute collocando i dettagli del «disagio» dentro il quadro complessivo di una trasformazione che non è retorico definire epocale. Una trasformazione che coinvolge innanzitutto la transizione verso un mondo post-occidentale e verso un assetto internazionale che non avrà più i suoi cardini (solo) in Occidente. Ma che investe anche le nostre società, le nostre vite individuali, il nostro modo di partecipare alla vita delle comunità in cui siamo inseriti. E non possiamo non essere consapevoli che un insieme tanto intricato di trasformazioni pone più di qualche interrogativo sulla capacità di resistere di ciò che, nel corso degli ultimi settant’anni circa, abbiamo inteso come “democrazia”. La democrazia liberale che abbiamo conosciuto – una democrazia ‘reinventata’, rispetto ai modelli del passato – era infatti figlia di un mondo che non esiste più. Non esiste più dal punto di vista dei rapporti internazionali, né sotto il profilo delle culture politiche che contribuirono a plasmarla, né sotto quello delle modalità organizzative – del conflitto e della mediazione – che ne scandirono le sequenze di sviluppo. Ed è anche per questo che il “realismo critico” deve fatalmente interrogarsi sulla metamorfosi di quel popolo “disfatto”, frammentato, scomposto, individualizzato che abita oggi le nostre società. E al quale la teoria democratica assegna in ultima istanza lo scettro del potere.

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