Damiano Palano
Nel 1967, un anno prima della sua scomparsa, Alexandre Kojève venne invitato da Jacob Taubes a tenere una conferenza in una Berlino Ovest travolta dalla contestazione studentesca. Anche in quell’occasione l’intellettuale di origine russa espose la propria lettura della Fenomenologia dello spirito di Hegel, sostenendo che la Storia era giunta ormai al termine. Ormai da molti anni Kojève ricopriva incarichi di rilievo nell’amministrazione francese, in cui era entrato alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Da quel momento aveva coltivato gli interessi filosofici solo a margine del suo impegno di alto burocrate. Ma la sua interpretazione di Hegel – centrata sulla lotta per il riconoscimento – aveva impresso una svolta cruciale. E proprio per questo venne chiamato a Berlino, dove peraltro disse ai giovani contestatori, capeggiati da Rudi Dutschke, che imparare il greco era il compito più importante cui si sarebbero dovuti dedicare.
All’indomani della conferenza, Taubes chiese a Kojève quale fosse la tappa successiva del suo viaggio in Germania. Rispose che si sarebbe recato a Plettenberg, la cittadina natale di Carl Schmitt, dove il giurista si era ritirato dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale. E aggiunse: “dove altro bisogna andare in Germania? Carl Schmitt è l’unico con cui valga la pena parlare”. Per quanto volesse probabilmente risultare spiazzante (soprattutto per un intellettuale di origine ebraica come Taubes), la risposta di Kojève non era affatto sorprendente, perché aveva intrattenuto con il giurista tedesco un duraturo confronto. Alcune tracce di quella discussione si possono ritrovare negli scambi epistolari, ma anche in alcune opere di Kojève si intravede il tentativo di confrontarsi con la prospettiva schmittiana, seppur con l’obiettivo di superarla.
Un esempio è rappresentato dai Lineamenti di una fenomenologia del diritto, che Kojève scrisse fra il 1942 e il 1943 e che poi ripose in un cassetto. Il testo – riscoperto solo molti anni dopo la sua morte e ora riproposto per il pubblico italiano in una nuova edizione, curata da Marco Filoni e Luigi Garofalo (Marsilio, pp. 739, euro 55.00) – rappresenta peraltro una sorta di mistero. Innanzitutto, perché non è chiaro perché il filosofo francese avesse deciso di dedicarsi a un’analisi tanto approfondita del fenomeno giuridico (senza poi pubblicarlo). Ma anche perché il manoscritto rivela una conoscenza della teoria giuridica che non trapelava affatto dai lavori precedenti dello studioso.
L’interpretazione del diritto avanzata da Kojève sviluppa la lettura che aveva fornito della fenomenologia hegeliana, focalizzata sulla centralità della lotta tra Servo e Signore. Il presupposto è che l’Homo sapiens si caratterizzi per il desiderio antropogeno: un desiderio che induce l’essere umano a creare se stesso in quanto “umano”. Ed è un simile desiderio a spingere alla lotta per il riconoscimento. “L’essere umano”, scrive infatti Kojève, “è l’atto di riconoscere e di essere riconosciuto”. In altre parole, esiste “solo in quanto riconosciuto da un altro”. Anche il fenomeno giuridico si configura come l’esito della contrapposizione fra due opposte concezioni di giustizia: per un verso, la giustizia dell’uguaglianza, propria del diritto aristocratico (che nasce dal rischio cui i signori si espongono nella lotta); per l’altro, la giustizia dell’equivalenza, ossia la giustizia del diritto borghese, della cittadinanza, che, come risultato della lotta, garantisce pari condizioni a tutti. La dialettica della lotta fra Signore e Servo è dunque anche la dialettica che contrassegna il diritto e l’idea di giustizia. E come la dialettica tra Signore e Servo è destinata a condurre alla fine della Storia, così la dialettica fra le due giustizie porterà al “diritto assoluto” e a quello che Kojève definisce lo “Stato universale e omogeneo”.
Un simile approdo – che si affaccia problematicamente nelle ultime pagine dei Lineamenti – si realizza con la sintesi fra eguaglianza ed equivalenza. E cioè quando prende forma una sorta di “Impero socialista” in cui viene meno la distinzione fra “Società politica” e “società economica”. In questo Stato universale e omogeneo non ci saranno più proprietari: nessun essere umano sarà dunque proprietario neppure del proprio corpo, perché il proprietario sarà lo Stato. E dunque il membro della società sarà al tempo stesso schiavo dello Stato e di se stesso.
Benché Kojève richiami e riprenda esplicitamente le tesi schmittiane sulla distinzione fra amico e nemico, deve evidentemente discostarsi dal giurista di Plettenberg proprio quando giunge all’approdo dello Stato universale. Per Schmitt, si potrebbe raggiungere una condizione come quella descritta da Kojève solo ‘superando’ il politico, ossia sopprimendo il costitutivo pluralismo delle comunità umane: ma si tratta ai suoi occhi di un traguardo irraggiungibile. E fin dagli anni Venti nega che sia realizzabile il progetto di uno Stato mondiale, perché a suo avviso la conflittualità fra gruppi umani, pur non comportando necessariamente la guerra, non può essere eliminata. Per Kojève, l’Impero socialista, di cui tratteggia i contorni, è invece l’assetto istituzionale di un mondo non solo post-storico ma anche ‘post-schmittiano’. Lo Stato universale e omogeneo “non ha nemici, non ha guerre da fare”, sottolinea infatti. Inoltre, “non ci sono in esso Gruppi politici esclusivi, cioè rapporti tra Governanti e Governati”.
Nei decenni seguenti, Kojève avrebbe continuato a interrogarsi sulla fine della Storia. Fu però il 1989, molto dopo la sua morte, a rendere realistica, agli occhi di molti, l’immagine di una sorta di Stato universale, capace di pacificare il pianeta. Quei sogni si sono però presto infranti contro la realtà di nuovi conflitti. La sagoma dell’Impero socialista è rimasta solo lo scenario di qualche distopia. E il mondo è tornato ad assumere i sinistri tratti schmittiani del conflitto tra amici e nemici.
Damiano Palano è Direttore di Aseri e Polidemos
* Questo articolo è apparso su Avvenire il 12 aprile 2025