A conclusione del suo primo anno di attività, Polidemos, il 19 e 20 luglio, organizza un workshop per riflettere sul futuro della democrazia italiana all’interno della suggestiva sede della Fondazione Giorgio Cini di Venezia, cui va un sentito ringraziamento per la generosa ospitalità. L’obiettivo del workshop è riflettere sui cambiamenti intervenuti nell’ultimo anno, sia per effetto del mutamento internazionale (fine dell’emergenza pandemica, scoppio della guerra in Ucraina, ridefinizione delle linee strategiche del blocco occidentale, “crisi” della globalizzazione), sia in seguito all’esito delle elezioni politiche del settembre 2022, al successo di Fratelli d’Italia e alla formazione dell’esecutivo guidato da Giorgia Meloni.
di Damiano Palano
La morte di Silvio Berlusconi è stata letta da molti osservatori come l’episodio conclusivo della cosiddetta “Seconda Repubblica”. Ma, se certo la scomparsa del Cavaliere avrà conseguenze sugli assetti politici e sulla stessa coesione della maggioranza di governo, è piuttosto scontato osservare che la configurazione che abbiamo a lungo definito – un po’ impropriamente – come “Seconda Repubblica” non esiste più da parecchio tempo. Almeno da quel fatidico 12 novembre del 2011, in cui il governo presieduto dal tycoon di Arcore fu costretto alle dimissioni dalle turbolenze finanziarie e dall’impennata dello spread.
Benché Forza Italia sia stata in grado di sopravvivere alle traversie giudiziarie del suo fondatore e alle sue altalenanti condizioni di salute, proprio dal 2011 – e, soprattutto, dalle successive elezioni politiche del 2013 – il sistema partitico italiano ha smarrito la configurazione bipolare che aveva assunto dal 1994. L’ascesa del Movimento 5 Stelle, cominciata proprio nei mesi della crisi del debito sovrano, non ha infatti rappresentato soltanto l’episodio più eclatante dell’ondata populista degli anni Dieci, ma è stata soprattutto il battesimo di un inedito assetto tripolare. Un assetto che era la conseguenza della capacità della formazione fondata da Beppe Grillo di spezzare la contrapposizione tra destra e sinistra (oltre che tra “berlusconismo” e “antiberlusconismo”) su cui si era fondato il bipolarismo della “Seconda Repubblica” e che, in fin dei conti, aveva contribuito a stabilizzare coalizioni sempre più orfane di solide identificazioni partitiche.
Il tripolarismo nato nel 2013 non poteva che rivelarsi instabile, come ogni sistema tripolare. Se le elezioni del 2018 e il clamoroso successo pentastellato confermarono l’esistenza di tre poli, la crisi del governo giallo-verde e la successiva formazione dell’esecutivo Conte II per molti versi segnarono un punto di svolta per il M5S. Non solo perché, a partire da quel momento, l’emorragia di consensi iniziò a palesarsi in modo piuttosto netto, ma in particolare perché prese ad attenuarsi la sua capacità di intercettare voti in modo trasversale rispetto all’asse destra-sinistra. Come sappiamo, il responso (annunciato) delle elezioni del settembre 2022 ha innanzitutto visto l’affermazione di Fratelli d’Italia, che ha raccolto i benefici derivanti dal fatto di essere rimasta l’unica voce di opposizione al governo guidato da Mario Draghi nell’ultima fase della pandemia, oltre che della coalizione formata di FdI, Lega e Fi. Ma l’esito era in gran parte prevedibile soprattutto per ciò che è avvenuto sul versante di centro-sinistra. La mancata alleanza fra i tre principali attori di quest’area – M5S, Partito democratico e il cosiddetto “Terzo polo” formato da Azione e Italia Viva – rendeva infatti pressoché scontata la vittoria della coalizione di destra in molti dei collegi uninominali previsti dell’attuale legge elettorale. Ciò nondimeno, l’annunciata débacle pentastellata non si è verificata. Il partito guidato da Giuseppe Conte è stato comunque in grado di conservare un significativo livello di consensi, indubbiamente molto inferiore rispetto ai valori di quattro anni e mezzo prima, ma in grado di incidere sulla dinamica complessiva.
Salvatore Vassallo e Luca Verzichelli – sintetizzando i risultati di un’indagine condotta per l’Istituto Cattaneo – sostengono che il sistema politico italiano sia oggi configurato da una logica di “bipolarismo asimmetrico” (Il bipolarismo asimmetrico. L’Italia al voto dopo il decennio populista, Il Mulino, Bologna, 2023). Nei collegi uninominali, le tracce del precedente tripolarismo sarebbero pressoché inesistenti: mentre uno dei due poli – quello di destra (destra-centro o centro-destra) – appare ben presente e piuttosto compatto, quello di centro-sinistra è sostanzialmente assente (in quanto polo unitario). Più in particolare, secondo Vassallo e Verzichelli, dopo il 2019 la destra bicefala composta da FdI e Lega è riuscita a riconquistare molti elettori che, pur avendo votato in passato per il polo “berlusconiano”, nel 2013 e nel 2018 si erano rivolti al M5S. Ciò non è accaduto sul versante di centro-sinistra, sia per l’assenza di una coalizione in grado contrastare la vittoria avversaria, sia perché una parte considerevole dell’elettorato pentastellato – come mostra anche l’indagine di Itanes (Svolta a destra? Cosa ci dice il voto del 2022, Il Mulino, Bologna, 2023) è andata a confluire nel bacino dell’astensione. Ed è anche per questo motivo che Fabio Bordignon, Luigi Ceccarini e James L. Newell – nel rapporto Cambio di rotta. L’Italia al voto del 2022 (Fondazione Feltrinelli, Milano, 2023) – ritengono che il tripolarismo sia tutt’altro che evaporato e che la spinta alla bipolarizzazione, sperimentata con i governi Conte II e Draghi, non si sia compiutamente realizzata.
Più che riproporre uno scenario analogo a quello bipolare – seppure di “bipolarismo frammentato” – della fase 1994-2011, l’attuale geometria sembra riconducibile a una sorta di “tripolarismo imperfetto”. Benché con ben differente peso elettorale, i tre poli emersi nelle elezioni del 2013 e del 2018 continuano infatti a esistere. E con ogni probabilità continueranno a sopravvivere nel prossimo futuro, dal momento che ogni ipotesi di alleanza strutturata tra Pd e M5S appare piuttosto remota, in virtù di differenze nette su questioni politicamente cruciali. Ma questo tripolarismo non può che risultare “imperfetto”, proprio come il bipartitismo di cui scrisse Giorgio Galli a proposito dell’Italia degli anni Sessanta e Settanta: si tratta cioè di un “tripolarismo” che, per le sue caratteristiche, rende del tutto improbabile un’alternanza di governo. E non solo con l’attuale sistema elettorale.
Al di là delle formule, gli attori del sistema politico italiano – un sistema uscito dalla pandemia e alle prese con il mutato contesto internazionale, della “crisi della globalizzazione”, del “ritorno dello Stato”, oltre che con le conseguenze della vittoria della coalizione di destra (o destra-centro) – sembrano ancora in gran parte alla ricerca di un’identità, o di un’identità rinnovata. Lo sono senz’altro gli sconfitti, ma lo sono anche i vincitori. Innanzitutto, Forza Italia, rimasta priva del suo fondatore e capo carismatico, ma anche la Lega di Matteo Salvini e Fratelli d’Italia. E benché gli orientamenti degli elettori di destra siano in fondo estremamente coerenti e compatti sui temi salienti, è piuttosto scontato che i vertici di questi partiti non perderanno l’occasione di trovare nuovi motivi di contesa (o di rispolverare quelli vecchi) per ridefinire identità e rapporti di forza, specialmente in vista delle elezioni europee (dove si voterà con il sistema proporzionale).
A rimanere in larga parte un’incognita è proprio la capacità di questo assetto di stabilizzarsi nel tempo. Molto dipenderà dai risultati e dell’efficacia (reale e percepita) dell’esecutivo, ma è difficile dimenticare la parabola che, nel recente passato, hanno percorso leadership a loro tempo definite come “carismatiche” e dipinte da molti commentatori come destinate a durare un ventennio. Non si può comunque correre il rischio di confondere il nuovo quadro con una riedizione del vecchio bipolarismo della stagione berlusconiana, con Giorgia Meloni nel ruolo che occupò il Cavaliere per circa un ventennio. A dispetto di alcune analogie apparenti, il quadro appare modificato su alcuni punti sostanziali.
Innanzitutto, l’intensità della polarizzazione odierna sembra molto inferiore rispetto a quella che segnò i periodi più infuocati delle contrapposizioni fra “berlusconismo” e “antiberlusconismo”. La situazione tra questo fronte potrebbe anche modificarsi, ma al momento anche per questo l’assetto sembra lontano da una stabilizzazione.
In secondo luogo, è necessario riconoscere che l’ondata populista dell’ultimo decennio ha modificato il quadro della discussione pubblica. Il “momento populista” in senso proprio – la fase in cui le identità politiche vengono ridefinite da una nuova offerta politica – si è probabilmente davvero concluso. E la stessa contrapposizione “alto/basso”, che in Italia ebbe una delle manifestazioni più eclatanti nella retorica dell’“uno vale uno”, sembra aver smarrito l’originaria forza propulsiva, anche per effetto della rapida trasformazione del Movimento 5 Stelle e della parabola politica di alcuni dei suoi leader un tempo più rappresentativi. Ciò che invece ha conquistato il centro della scena è la versione “esclusivista” della retorica populista, ossia quella che contrappone “dentro” e “fuori”, facendo leva su paure più o meno razionali e su ciò che resta di sentimenti nazionalistici. Come hanno sottolineato diversi osservatori (si veda per esempio la discussione condotta sulle pagine di “Vita e Pensiero”), ha preso forma una sorta di radicale mutamento, che segna davvero un passaggio netto rispetto alla “Seconda Repubblica”. La destra – che proprio su questo piano si differenza nettamente rispetto al “centro-destra” della stagione berlusconiana – sembra infatti aver conquistato un’egemonia incontrastata nella discussione pubblica, imponendo temi e stili dinanzi a cui il campo di sinistra (comunque lo si intenda) non sembra in grado di contrapporre sostanziali argini, se non sul tema dei “diritti civili”.
Un terzo fattore che differenzia l’attuale scenario non solo da quello della “Seconda Repubblica”, ma anche da quello del “decennio populista”, è infine relativo al clima emotivo complessivo in cui si svolge la contesa politica. Nella stagione del berlusconismo, l’intensità della polarizzazione e la spinta alla personalizzazione rappresentarono un antidoto formidabile – o forse solo una cura palliativa – alla strisciante disaffezione, alla sfiducia, al risentimento, che poi esplose dopo il 2011. L’ondata populista riuscì a dare a quel risentimento un indirizzo politico, trasformando il disprezzo nei confronti della “casta” in una speranza di rinnovamento che riavvicinò alla politica molti elettori delusi o persino “alienati”. Ma gli effetti di quell’ondata si sono rivelati in gran parte effimeri e non sono stati in grado di attivare – se non parzialmente – nuovi meccanismi di identificazione. Un effetto della disillusione post-populista è riconoscibile innanzitutto nelle dimensioni di quella “Repubblica degli assenti” rappresentata dagli astenuti alle elezioni del settembre 2022. Ma un effetto ulteriore è anche il clima di rassegnazione in cui sembra svolgersi la discussione pubblica italiana, perché – nonostante le tensioni internazionali e nonostante gli sforzi degli attori politici – la società italiana pare in gran parte osservare da spettatrice passiva quanto avviene nel Palazzo, senza far trapelare tracce significative di quelle spinte partecipative che contrassegnarono tanto la “Prima” quanto la “Seconda Repubblica”.
Per quanto indagare ciò che avviene nelle dimensioni “pre-politiche” di una società sia sempre molto più di difficile che esaminare quanto avviene nelle istituzioni e negli equilibri tra forze politiche, è proprio a quel livello che si dovrebbero probabilmente cercare le risposte alle tante domande sulle possibili direzioni future dell’infinita transizione italiana. E forse solo interrogando quanto si muove al di sotto della superficie delle istituzioni e nel ventre della sfuggente e indecifrabile “Repubblica degli assenti”, potremmo davvero capire se il futuro riservi incognite insidiose e se siano ancora solide le fondamenta della nostra democrazia.
Oltre ai ricercatori di Polidemos, prenderanno parte al workshop: Marco Almagisti (Università di Padova – Altopiano), Alessandro Campi (Università di Perugia – Rivista di Politica), Giacomo Bottos (Pandora), Paolo Carelli (Università Cattolica – Certa) Flavia Giacobbe (Formiche), Paolo Graziano (Università di Padova), Mario Ricciardi (Università degli Studi di Milano – Il Mulino), Andrea Scavo (Ipsos), Jacopo Tondelli (Gli Stati generali), Teresa Coratella (Europian Council of Foreign Relations), Claudio Fontana (Fondazione Oasis), Vittorio Emanuele Parsi (Università Cattolica), Antonio Zotti (Università Cattolica), Carlo Muzzi (Giornale di Brescia), Massimo Scaglioni (Università Cattolica – Certa), Anna Sfardini (Università Cattolica – Certa), Massimiliano Panarari (Università Mercatorum), Pietro Vietti (Tempi), Cecilia Biancalana (Università di Torino), Giulio Citroni (Università della Calabria), Enrico Padoan (Università di Siena), Alessio Scopelliti (Università degli Studi di Milano), Valeria Tarditi (Università della Calabria).