di Claudio Fontana
Quasi 280 milioni di abitanti distribuiti su cinque isole principali e 30 arcipelaghi più piccoli, per un totale di oltre 18.000 isole e isolotti; più di 200 milioni di elettori, 10.000 candidati, 820.000 seggi e un numero di scrutatori e personale coinvolto nelle attività elettorali che si avvicina ai 6 milioni di persone; 114 morti tra gli “election workers” a causa dell’elevato ritmo di lavoro imposto, della durata dello spoglio e dei problemi logistici (un bilancio che può quasi apparire “contenuto” se paragonato ai circa 900 morti delle elezioni del 2019). Bastano questi pochi numeri per farsi un’idea dell’immane sforzo organizzativo necessario per lo svolgimento delle elezioni presidenziali, parlamentari e locali svoltesi il 14 febbraio in Indonesia.
Tuttavia, il peso demografico, l’importante dimensione dell’economia e la sua peculiare (e strategica) collocazione geografica non sono gli unici motivi per cui sempre maggiore attenzione viene prestata all’Indonesia. Le elezioni di quest’anno, infatti, sono state sotto la lente d’ingrandimento anche a causa dei timori riguardo a un possibile arretramento democratico, alimentato da diversi fattori. Tra questi vi sono l’influenza della vicina Cina e i tentativi di Joko Widodo (conosciuto come Jokowi) di dare il via a una “dinastia politica”. Un terzo gruppo di preoccupazioni è invece connesso al presidente in pectore, Prabowo Subianto, e alla sua storia militare al servizio del dittatore Suharto. Ciascuno di questi aspetti, naturalmente, non può essere considerato singolarmente, ma al contrario nel contesto di intersezione con gli altri.
Le urne hanno visto sfidarsi i candidati presidenti Anies Baswedan, ex ministro dell’Istruzione, sostenuto dal Partito Nazionale Democratico e da formazioni conservative e islamiste; Ganjar Pranowo, ex governatore di Giava centrale, sostenuto dal più grande partito indonesiano, il Partito Democratico Indonesiano di Lotta (PDI-P); il già menzionato Prabowo Subianto, capo del partito Gerindra. Per Prabowo si trattava del terzo tentativo di ottenere la presidenza. Con un cambio di orientamento non così sorprendente per le peculiarità del sistema indonesiano, per presentare una nuova versione di sé quest’anno Prabowo ha sfruttato a suo vantaggio la volontà del suo predecessore Jokowi di mantenere il controllo sul sistema politico indonesiano. Da parte sua, il presidente uscente ha messo sulla bilancia l’invidiabile grado di apprezzamento (attorno all’80%) di cui, dopo due mandati, continua a godere.
Se nel 2014 Prabowo aveva adottato una piattaforma nazionalista e populista, e nel 2019 si era fatto garante delle istanze islamiste, dopo due sconfitte ha scelto di presentarsi come il candidato della continuità, promettendo la prosecuzione del percorso di sviluppo avviato da Jokowi. Per dare credibilità alla promessa di continuità, Prabowo ha scelto Gibran Rakabuming Raka, il maggiore di figli dell’ex presidente, come candidato vicepresidente. Il sostegno (più o meno esplicito) di Jokowi alla candidatura del figlio Gibran ha posto l’ex presidente in rotta di collisione con il partito che l’ha sostenuto durante gli ultimi 10 anni, il PDI-P.
Dal punto di vista della tenuta democratica del sistema, a destare preoccupazione non è tanto la gestione consociativa del potere, piuttosto frequente dal periodo delle riforme democratiche post-Suharto (1998). Se è vero che la caduta di Suharto ha portato all’instaurazione di un sistema democratico, è altrettanto vero, infatti, che le élite al potere, mentre competono in elezioni più o meno corrette, hanno imposto significative barriere all’ingresso di nuovi attori alla gestione del potere. Da questo punto di vista, sebbene Jokowi sia stato l’outsider di successo, anch’egli è in fin dei conti dovuto scendere a patti con le élite statali e le prassi che caratterizzano la gestione del potere e dell’economia in Indonesia. Non a caso, dopo averlo sconfitto nel 2019, Jokowi ha nominato proprio Prabowo suo ministro della Difesa, affidando dunque il ministero a una figura strettamente legata all’era-Suharto. È certamente meno incoraggiante, invece, il modo in cui è stato possibile passare sopra alle leggi dello Stato per fini politici: Gibran non aveva ancora raggiunto l’età minima (40 anni) necessaria per la candidatura a vicepresidente, ma la Corte costituzionale indonesiana ha facilmente adottato un provvedimento che l’ha permessa. Chi presiedeva la Corte in quel momento? Il cognato di Jokowi.
Sono questo genere di situazioni e caratteristiche che fanno assomigliare l’Indonesia più a un’oligarchia competitiva, con le élite a spartirsi il potere politico ed economico, e un po’ meno alla «visione occidentale di una democrazia liberale». Lo stesso Jokowi con la sua popolarità e il successo dei suoi programmi di sviluppo, è diventato un problema per i partiti e oggi sembra volersi svincolare dalle forze politiche tradizionali, perpetuando la sua eredità politica attraverso il ruolo del figlio Gibran. Per farlo, però, anche Jokowi ha avuto bisogno di una figura come Prabowo Subianto.
Vi sono poi le credenziali personali di Subianto e le sue pulsioni autoritarie. Per anni gli Stati Uniti gli hanno impedito l’ingresso nel Paese a causa del suo ruolo nella repressione delle proteste all’Università Trisakti di Giacarta nel 1998, dopo la caduta del regime di Suharto. A guida della squadra di forze speciali Mawar, Prabowo – che ha sempre respinto ogni accusa – è stato poi accusato di aver rapito decine di studenti e attivisti che si adoperavano per la caduta di Suharto. Di tredici ragazzi non si è mai scoperta la sorte. Inoltre, in più di un’occasione Prabowo ha manifestato il suo scarso gradimento per il sistema politico indonesiano e ha affermato di voler ripristinare la Costituzione del 1945.
Se dunque i timori per un arretramento democratico sembrano giustificati, d’altro canto la situazione indonesiana è radicalmente differente da quella osservabile in alcune democrazie, occidentali e non. Mentre in alcuni Paesi, nel mezzo di crisi più o meno riconosciute, l’elettorato subisce il fascino dell’uomo (percepito come) forte, l’Indonesia non ha le caratteristiche di una nazione in crisi. Davanti a sé ha un futuro di crescita economica – certificata dalla partecipazione al G20 – e la gran parte dei suoi elettori non ha memoria del passato di Prabowo: il 56,5% dell’elettorato (si vota dai 17 anni, ma anche prima se si è sposati) è nato dal 1981 in avanti. Questa massa di popolazione giovane chiede semplicemente che il percorso economico avviato da Jokowi prosegua.
È su questo che Prabowo ha puntato in campagna elettorale ed è su questo aspetto di continuità e di sviluppo economico che ha conquistato i giovani indonesiani. Inoltre, come notato da diversi osservatori, sarà complicato per Prabowo guidare il Paese come un autocrate: «una società civile vivace, [la presenza di] media investigativi, e il sistema decentralizzato del Paese aiutano a contenere il potere del presidente». Ciò non elimina le preoccupazioni per le accuse di frodi elettorali (come mostrate dal film Dirty Vote) e per il tentativo dei sodali di Jokowi di limitare la libertà di espressione. Ciononostante, la partita per definire il futuro del sistema politico indonesiano non è finita con le elezioni appena trascorse: alle legislative il partito Gerindra di Prabowo ha ottenuto soltanto il 13% e dovrà giocoforza trovare soluzioni concertate con altri partiti.
Altre incognite giungono però dallo scenario regionale e internazionale. Nonostante si configuri anche come un competitor geopolitico per le sue azioni nel Mar Cinese meridionale (Pechino contende a Giacarta le Isole Natuna), la Cina esercita un’influenza sempre maggiore nel Paese. Anche a causa della sua enfasi sullo sviluppo infrastrutturale, Jokowi ha corteggiato con successo gli investimenti cinesi, che sono passati da circa 300 milioni di USD nel 2012 a 3,36 miliardi di USD nel 2017. Parallelamente sono andati approfondendosi i legami politici, che sono passati dalla strategic partnership siglata nel 2005 da Hu Jintao e Yudhoyono, alla comprehensive strategic partnership del 2013 per finire, nel 2015, con l’ingresso indonesiano nella Belt and Road Initiative (l’arcipelago è il principale beneficiario degli investimenti cinesi nel Sud Est asiatico). Dopo la scelta indonesiana di vietare le esportazioni di nichel grezzo per favorire gli investimenti nel settore industriale ed esportare prodotti finiti a più alto valore (downstreaming), Pechino ha finito con il dominare questo settore fondamentale non solo per l’economia dell’Indonesia ma anche per il crescente settore industriale delle batterie dei veicoli elettrici.
L’aumento dell’importanza della Cina per il Paese solleva un interrogativo sul modo con cui l’Indonesia si pone sullo scenario internazionale e soprattutto regionale. Storicamente Paese non allineato, Giacarta preferisce “remare tra due scogliere”, ovvero evitare di schierarsi apertamente con una potenza straniera e difendere soltanto i propri interessi nazionali. Ciò ha caratterizzato il suo modo di porsi nell’arena internazionale: «negli ultimi venti anni, l’Indonesia ha gradualmente migliorato la sua immagine all’estero svolgendo un ruolo più audace nella politica regionale e internazionale, oltre a esibire la sua emergente identità democratica attraverso la proiezione di norme democratiche nelle sue interazioni regionali e globali», ha scritto Ahmad Rizky Mardhatillah Umar. Da questo punto di vista, indipendentemente dai singoli candidati alle elezioni e dalle inclinazioni di Prabowo, sembra possibile individuare una traiettoria: Yudhoyono immaginava un’Indonesia che si poneva nel contesto internazionale mostrando la sua natura di democrazia emergente e «home-grown».
Pur condividendo l’importanza della natura democratica dell’Indonesia, Jokowi ha enfatizzato soprattutto i benefici economici e di sviluppo connessi al consolidamento del sistema democratico. Si nota uno slittamento del piano del discorso che prima assegnava al sistema democratico un valore in sé, poi si sofferma principalmente sui benefici di tale sistema. Questo slittamento, probabilmente, sarà ancora più pronunciato durante il mandato di Prabowo. Ma né il nuovo presidente, né Jokowi, sono intenzionati ad accantonare la natura dell’Indonesia e la sua politica di non allineamento. Per quanto grandi possano essere gli investimenti cinesi.
Claudio Fontana è Analista e Program manager presso la Fondazione Oasis, e PhD candidate in "Istituzioni e Politiche" presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore.