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Il trumpismo e il volto di un’idea

Il trumpismo e il volto di un’idea

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di Nicolò Ferraris

 

Donald Trump eletto ufficialmente quarantasettesimo Presidente degli Stati Uniti d’America. La notizia giunge nella lunga notte elettorale del 6 novembre 2024, priva di grossi colpi di sorpresa e dominata dal Partito Repubblicano, che riesce a travolgere i Democratici di Kamala Harris “by a landslide”. Una volta reso inequivocabile il risultato, un Trump trionfante ha calcato il palco del suo quartier generale a West Palm Beach, promettendo “una nuova epoca d’oro per l’America” sottolineando che secondo alcuni “Dio gli ha affidato la missione di salvare l’America”.

Il tutto avviene dopo una campagna elettorale non priva – questa sì – di colpi di scena ed imprevisti, che si sono susseguiti in un contesto politico estremamente polarizzato, a tratti violento. Donald Trump ritorna sulla scena politica dopo un assalto fallito al Campidoglio nel 2021, dopo essere sopravvissuto a un attentato alla sua vita nel corso della campagna elettorale, ma soprattutto dopo quattro anni presidenza Biden, la cui missione di “unire il Paese” pare che sia fallita, lasciando un’America ancora divisa nelle proprie scelte politiche.

A differenza del passato, tuttavia, il voto repubblicano quest’anno è stato più netto.

Il trumpismo è stato infatti in grado di veicolare un messaggio trasversale all’elettorato statunitense, mantenendo tutte le proprie caratteristiche ascrivibili al conservatorismo populista contemporaneo – e perciò, continuando a coinvolgere il “nocciolo duro” dell’elettorato repubblicano, la working class dimenticata dalla politica e dal partito democratico, come sottolinea in modo tagliente Bernie Sanders – ma inserendo un elemento di parziale novità rispetto alle scorse competizioni elettorali: la lotta per la libertà di espressione, in una concezione estrema ed estremista, contrapposta alla dittatura del politicamente corretto, e unita ad un’idea di liberazione delle potenzialità umane dai supposti vincoli dati da regole esterne. Grazie a ciò è stato possibile il coinvolgimento anche della classe imprenditoriale libertaria, potentemente simboleggiata da Elon Musk, il quale ha anche assunto un ruolo di potente cassa di risonanza del messaggio trumpiano, sia sui social (in particolar modo X, di cui è anche il proprietario) sia come alleato sul palco ai comizi in presenza.

Trump è, ancora prima di un volto, un’idea. È un’idea di rivalsa, un’idea di uscita dalle difficoltà e dall’insoddisfazione, è l’idea di uomo “che ce la fa” a prescindere da regole, precondizioni o vincoli esterni, anche a costo dell’intolleranza nei confronti del diverso e dell’estremismo. È un’idea di rovesciamento di un sistema considerato corrotto, soffocante, quasi manipolatorio, i cui responsabili sono le élite democratiche, quegli “enemy from within” di cui è necessario liberarsi con ogni mezzo a disposizione. Ed è proprio questo “rifiuto delle regole” che potrebbe rendere il messaggio politico di Donald Trump particolarmente pericoloso, in quanto potrebbe implicarne un’applicazione “a qualsiasi costo”. Detto in termini più consoni, i prossimi quattro anni di presidenza potrebbero vedere la presenza di politiche al di fuori dell’alveo democratico-liberale.

D’altronde, Trump giunge alla presidenza in modo estremamente diverso dal 2016: se durante il primo mandato il magnate newyorkese era alla prima esperienza politica, oggi Trump è un politico navigato, sopravvissuto a una prima esperienza a Washington D.C. e da quelli che considera errori del primo mandato – tra cui, la scelta di John Kelly come Chief of Staff, che ora reputa un uomo debole – e che ora gli hanno permesso di scegliere e circondarsi di persone fedelissime a lui e al suo messaggio.

Inoltre, a livello istituzionale, Trump parrebbe poter avere dalla propria parte – con la quasi certezza – sia il Senato sia la Camera dei Rappresentanti, con maggioranza repubblicana. Perciò, il raggio di azione per l’attuazione delle proprie idee politiche parrebbe essere molto ampio – in primis, grazie all’utilizzo degli ordini esecutivi, di cui Trump ha già fatto cenno in diversi interventi. In un discorso pubblicato sui social, e poi ripostato da Elon Musk e da Joe Rogan (host del podcast The Joe Rogan Experience, in cui Trump è stato ospite) – Trump ha infatti promesso la rimozione di tutti i funzionari pubblici responsabili di censure e di limiti alla libertà di espressione, a partire dal primo giorno della propria presidenza.

Insomma, le condizioni per un “malessere” della democrazia americana parrebbero palesarsi. Tuttavia, la democrazia USA ha dimostrato di possedere anticorpi per far fronte ad attacchi nei confronti di sé stessa: di questo abbiamo avuto prova nel gennaio del 2021, e lo stesso Trump, a capo di un partito ormai posto all’estremo dello spettro politico, ha dovuto attendere la scadenza naturale del mandato di Biden per poter nuovamente competere per il vertice del potere. Della resilienza della democrazia americana a possibili fenomeni di erosione democratica ne sono convinti anche alcuni esperti, tra cui Cas Mudde, che considera il sistema americano pensato per “resistere alla tirannia”.

Ulteriore pericolo, tuttavia, potrebbe riguardare il mondo al di fuori degli Stati Uniti, meno dotato di anticorpi, a livello istituzionale, per far fronte a sferzate di tipo illiberale. Di questo ne è sicuramente consapevole l’Ucraina di Zelensky, che potrebbe essere danneggiata da un ritiro in sé stessi degli Stati Uniti – e, che tra l’altro, Trump considera un problema risolvibile in ventiquattr’ore. Ma anche una maggiore tolleranza nei confronti delle azioni di Israele – anche coadiuvata dal legame politico tra Trump e Netanyahu – potrebbe avere delle grosse ripercussioni sul popolo palestinese, libanese, e sulle relazioni con l’Iran. Senza dimenticare la Cina, nodo fondamentale della politica internazionale contemporanea, e grosso punto di attenzione per la politica economica (e non solo) di Trump, nonostante l’ammirazione per lo stile di governo di Xi Jinping.

Insomma, torna l’America repubblicana di Donald Trump, in un contesto interno ed internazionale ricco di incognite. A nulla sono serviti gli sforzi del partito democratico di impostare la campagna elettorale sulla speranza e sulla gioia, coinvolgendo le parti di elettorato più progressiste del Paese, puntando sull’inclusione delle minoranze e dei diritti delle donne, e in generale sullo Stato di diritto, contrastando la retorica violenta della campagna repubblicana.

Torna l’America Repubblicana di Donald Trump, mentre il partito Democratico paga lo scotto di una campagna zoppicante, partita nel secondo tempo, e soprattutto la mancanza di un’idea. Idea che invece Trump rappresenta appieno.

 

Nicolò Ferraris è Program Assistant presso Aseri

 

 

 

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