Editoriale

Il "ritorno dello Stato" non è solo una questione economica

Il "ritorno dello Stato" non è solo una questione economica

Condividi su:

 

di Damiano Palano*

 

Dall’inizio del Novecento parecchi autorevoli osservatori hanno previsto l’imminente morte dello Stato. A partire dagli anni Ottanta questa tendenza è apparsa a molti addirittura irrefrenabile. Imponenti trasformazioni economiche, tecnologiche e militari sembravano infatti rendere gli Stati sempre meno capaci di regolare i flussi finanziari globali, di controllare le reti comunicative, di presidiare i confini. E per questo ogni riforma doveva essere funzionale a far “dimagrire” la panciuta burocrazia pubblica, a renderla simile alle aziende, più “flessibile” e più sensibile alle logiche operative del mercato.

A poco a poco le cose però sono cambiate. Il pendolo, che a partire dalla “rivoluzione neoliberale” di Thatcher e Reagan aveva oscillato in direzione del mercato, ha infatti iniziato da ormai più di un decennio a volgere nella direzione opposta. Durante la pandemia, è risultato chiaro che gli Stati non solo non erano morti, ma erano in grado di esercitare un pieno controllo sulla società e sui comportamenti individuali. Con l’uscita dall’emergenza sanitaria abbiamo inoltre assistito a massicci investimenti pubblici, che hanno fatto quasi dimenticare l’Ue fedele custode dei principi dell’austerità. Infine, la guerra ha fatto capire, una volta di più, come gli Stati occidentali, per quanto possibile, debbano “riprendere il controllo” della globalizzazione e del mercato. Dunque, non solo lo Stato non è morto, ma sembra destinato a diventare sempre più importante nei prossimi anni.

Molti attori cruciali dell’economia globale sono d’altronde già oggi espressione, più o meno diretta, di un nuovo capitalismo di Stato, molto diverso da quello dei paesi socialisti. Nel settore energetico, come in quelli delle materie prime e delle comunicazioni, sono infatti emerse nell’ultimo ventennio nuove imprese che hanno scalzato il ruolo dominante delle multinazionali statunitensi e che sono emanazione più o meno diretta dei loro Stati di appartenenza. Secondo una classifica di “Forbes”, tra le prime cento società del mondo a più elevato fatturato, 28 sono per esempio rappresentate da gruppi cinesi controllati dallo Stato. Ma casi altrettanto rilevanti si possono ritrovare in Russia, Brasile, Messico e India, oltre che persino in Francia. E benché operino sul mercato globale, le loro scelte sono guidate da logiche principalmente politiche (si veda per esempio il dossier Serve più Stato? curato da Paolo Gerbaudo, in «Il Mulino» 2/2023).

Gli ultimi tre anni hanno reso evidente ciò che alcuni osservatori avevano già abbondantemente segnalato. E cioè che, confidando (più o meno ciecamente) nelle virtù del mercato globale, oltre che nella loro superiorità tecnologica, i paesi occidentali (e soprattutto europei) hanno via via perso il controllo su risorse strategiche, come le filiere delle batterie e dei semiconduttori. E non sono stati in grado di adeguarsi alla novità del nuovo capitalismo di Stato. Ora le cose sono cambiate e il Next Generation Eu è la manifestazione più clamorosa del cambio di stagione. Le difficoltà che, soprattutto in Italia stiamo sperimentando nell’utilizzo delle risorse del Pnrr, dimostrano però che la partita riguarda anche la capacità amministrativa di cui gli Stati dispongono.

Tuttavia, qui paghiamo il prezzo di un ventennio in cui – anche per effetto di una distorta visione dei rapporti tra Stato ed economia – la burocrazia pubblica è stata oggetto pressoché esclusivamente di tagli, in assenza di qualsiasi disegno complessivo di riforma. Il blocco del turnover ha innanzitutto comportato una parziale sostituzione del personale collocato a riposo. Tra il 2008 e il 2019 ciò si è tradotto, per esempio, nella riduzione di più di 260 mila lavoratori a tempo pieno, che nelle amministrazioni locali si è tradotto in un calo del 10% degli occupati. Il blocco delle assunzioni ha inoltre rafforzato la tendenza all’invecchiamento del personale. Mentre, contemporaneamente, la spesa per formazione è calata drasticamente per diversi anni. Proprio nello stesso periodo in cui la rivoluzione digitale cambiava vertiginosamente il nostro modo di vivere, di lavorare e di comunicare (cfr. Politica in Italia. I fatti e le interpretazioni. Edizione 2023, a cura di F. Genovese e S. Vassallo, Il Mulino, Bologna 2023).

È quasi inevitabile che le responsabilità per l’eventuale mancato rispetto delle scadenze previste dal Pnrr siano oggetto di polemica politica. Ma non dovremmo dimenticare che le principali difficoltà scaturiscono proprio dal deficit di capacità amministrativa aggravatosi negli anni, specie nelle amministrazioni locali e soprattutto in quelle del Mezzogiorno (che in teoria avrebbero dovuto giocare un ruolo di primo piano nello sfruttare al meglio la pioggia di risorse). E vengono così al pettine i nodi non solo delle riforme mancate, ma anche di una visione distorta che ha continuato a rappresentare la burocrazia pubblica solo come una fonte di sprechi e un esempio di inefficienze di cui liberarsi. Senza comprendere che la partita globale richiede anche apparati amministrativi robusti, dotati di capacità di progettuale e delle competenze necessarie per guidare un mutamento travolgente (o quantomeno per non esserne travolti).

Forse non è troppo tardi per invertire la rotta, ma – dobbiamo esserne consapevoli – si tratta di un’impresa che richiede tempi lunghi. Forse più lunghi di quelli che la competizione globale ci consente.

* Una versione differente di questo testo è apparsa sul quotidiano «Il Giornale di Brescia»

Data

Condividi su:

Newsletter

Iscriviti alla newsletter