editoriale

Il ritorno della “democrazia militante” (e i suoi rischi)

Il ritorno della “democrazia militante” (e i suoi rischi)

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di Damiano Palano

 

Nel 1937 il giurista tedesco Karl Loewenstein pubblicò due articoli sulla «American Review of Political Science» in cui metteva in guardia le democrazie liberali dal rischio rappresentato dalla diffusione del fascismo a livello globale. Emigrato dalla Germania verso il Nuovo Mondo per sfuggire al regime hitleriano, Loewenstein aveva ovviamente ben presente le dinamiche che avevano condotto al crollo della Repubblica di Weimar e alla presa del potere da parte del Partito nazionalsocialista, dopo la vittoria conseguita nelle elezioni del 1933. Il caso tedesco e ancora prima quello italiano non rappresentavano però eventi eccezionali. Le tecniche di mobilitazione dei partiti fascisti, fondate anche sul ricorso alla violenza, si andavano infatti diffondendo in tutto il mondo e soprattutto in Europa. E sfruttavano, ad avviso di Loewenstein, l’assenza di presidi adeguati in grado di difendere le istituzioni democratiche dal rischio di involuzioni autoritarie. Secondo il giurista bisognava prendere atto dei rischi rappresentati da forze che non esitavano a ricorrere a strumenti illegali per la loro propaganda. Negli articoli pubblicati nel 1937, ora raccolti nel volume Democrazia militante e diritti fondamentali, a cura di Mariano Croce (Quodlibet, pp. 120, euro 15,00), sosteneva dunque che, per difendere i principi democratici, fosse necessario adottare gli stessi strumenti utilizzati dagli avversari. In altre parole, la «democrazia militante» doveva ricorrere a poteri eccezionali per mettere fuori legge le forze politiche che puntavano a sovvertire la Costituzione, doveva limitare le libertà di riunione e di associazione, oltre che persino la stessa libertà di espressione. In altri termini, doveva utilizzare contro i ‘nemici interni’ della democrazia quegli stessi mezzi con cui i movimenti fascisti puntavano a conquistare il potere.

Nella sua argomentazione, Loewenstein tendeva evidentemente a concedere ai poteri eccezionali uno spazio molto ampio, tanto da prefigurare un assetto che, per difendere la democrazia, finiva per assomigliare molto a una dittatura. Ma certo le preoccupazioni che il giurista esplicitava sono state recepite dal dibattito, tanto che le carte costituzionali scritte in Europa dopo il 1945 prevedono qualche genere di limitazione, più o meno ampia, nei confronti delle formazioni che, nella lotta politica, non adottino il «metodo democratico», o che si facciano alfieri di valori incompatibili con i principi di fondo sanciti nelle costituzioni. In particolare, un ruolo di sorveglianza è stato affidato alle corti costituzionali, chiamate non solo a vigilare sulla congruenza della legislazione ordinaria con i principi enunciati nelle carte, ma, in alcuni casi, anche a esprimersi sulla compatibilità di movimenti e partiti con la vita democratica. La Legge fondamentale tedesca, per esempio, assegna proprio al Tribunale costituzionale federale il compito di valutare se determinati partiti, «in ragione delle finalità perseguite o del comportamento dei loro aderenti, si prefiggano di compromettere o annientare il libero ordinamento democratico, oppure mettono a rischio l’esistenza della Repubblica federale tedesca, siano incostituzionali» (art. 21). Se in passato una simile disposizione ha effettivamente condotto a decretare lo scioglimento di alcune formazioni e a vietare la loro partecipazione alla contesa elettorale, più di recente è stata invece alla base della decisione della corte di privare un piccolo partito neonazista della possibilità di accedere a finanziamenti pubblici.

Non è sorprendente che la discussione sulla democrazia militante sia tornata ad accendersi negli Stati Uniti dopo la vittoria di Trump alle elezioni del 2016. Ma la questione riguarda naturalmente anche l’Europa. La decisione adottata dalla Corte costituzionale rumena, annullando l’esito del primo turno delle elezioni presidenziali, è infatti una dimostrazione proprio di come anche oggi si ritenga che la democrazia debba farsi “militante”, tanto da giungere a misure estreme.

La Suprema Corte di Bucarest ha adottato il provvedimento dopo che i servizi di intelligence rumeni avevano individuato numerose “azioni ibride aggressive” attribuite a Mosca, tese a influenzare le elezioni presidenziali. Secondo i servizi, tali azioni avrebbero favorito l'exploit del candidato filo-russo Calin Georgescu, che ha raggiunto il 22,9% al primo turno.

Quanto è avvenuto in Romania – che si lega peraltro agli avvenimenti registrati negli ultimi mesi in diversi paesi dell’Est europeo, dentro e fuori dall’Ue – mostra quanto le “minacce” alla democrazia siano oggi senz’altro “interne”, ma, al tempo stesso, “esterne”, cioè favorite e sostenute da Stati interessati a destabilizzare i paesi ritenuti ostili. Sebbene le grandi potenze abbiano sempre cercato di influire sulla politica di altri Stati, la crescente interconnessione globale ha infatti amplificato il fenomeno delle “misure attive”, diventate onnipresenti grazie anche alla Russia, la quale utilizza da anni troll e hacker per perseguire i propri obiettivi. Vent’anni fa, Mosca percepì le “rivoluzioni colorate” in Georgia, Ucraina e Kirghizistan come il risultato della strategia occidentale di interferire nella propria sfera d’influenza attraverso la manipolazione dell’opinione pubblica. Considerando queste azioni come una forma di “guerra ibrida”, da allora il Cremlino ha sviluppato tecniche che puntano a destabilizzare le democrazie occidentali, influenzare il voto e dividere i rivali attraverso una “guerra dell’informazione” condotta con strumenti economici, psicologici e ideologici. Gli analisti occidentali preferiscono invece parlare di “zona grigia” per descrivere le azioni non militari della guerra ibrida. Ma concordano sul fatto che le minacce del futuro saranno anche ibride e che sfrutteranno l’interconnessione economica e tecnologica.

La dilatazione della “zona ibrida” torna a porre la questione della “democrazia militante”. Ancora una volta, ci dobbiamo chiedere infatti come proteggere le democrazie dalla disinformazione e dagli attacchi informatici senza compromettere la libertà di espressione, uno dei pilastri fondamentali del sistema democratico. Inoltre, ci dobbiamo ancora una volta porre il problema di tutelare la Costituzione senza ledere la libertà di espressione e di associazione. E il problema è che gli strumenti di cui disponiamo rischiano di essere o poco efficaci, o persino controproducenti, come potrebbe rivelarsi proprio la decisione della Corte rumena. Nonostante le motivazioni della Corte di Bucarest siano certo ben fondate, l’annullamento delle elezioni potrebbe essere infatti percepito da una parte degli elettori come una violazione della democrazia. Dimostrare l’impatto concreto della disinformazione o delle fake news sui risultati elettorali è d’altronde molto complesso, anche dinanzi alle evidenze esibite dai servizi di Bucarest sulle ingerenze e sui flussi finanziari riconducibili a Mosca. E, dunque, rimane complicato provare che proprio queste interferenze rendano inevitabile l’annullamento delle elezioni. Una conseguenza potrebbe essere invece un’ulteriore erosione della fiducia nelle istituzioni e nel regime democratico. E così, la “democrazia militante” e i suoi strumenti eccezionali, adottati per difendere i principi costituzionali dalla subdola minaccia della guerra ibrida, potrebbero finire col gettare nuovo carburante nel serbatoio della polarizzazione e, dunque, col destabilizzare ancora di più il quadro politico.

 

Damiano Palano è Direttore dell'Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali (Aseri) e Direttore di Polidemos

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