di Mireno Berrettini
Il 5 novembre scorso gli statunitensi hanno scelto chi li avrebbe rappresentanti al Congresso e il profilo del prossimo inquilino della Casa Bianca. Si è trattato di una decisione presa in modo netto, i Repubblicani di Donald Trump hanno vinto le consultazioni e, cosa inedita dal 2004, hanno ottenuto la maggioranza anche nel voto popolare. Le ragioni della vittoria repubblicana o della sconfitta democratica possono essere analizzate a diversi livelli e secondo diversi approcci scientifici, ma un dato rimane incontestabilmente centrale: una figura come quella di Trump è l’espressione delle tendenze di fondo nella trasformazione della democrazia statunitense così come del diverso posto che Washington occupa nel sistema internazionale. La tenuta del sistema istituzionale americano è sottoposta alle tensioni derivanti da una sempre più radicale spinta centrifuga alla tenuta del patto sociale che lo ha storicamente sostenuto, così come la sgrammaticatura della politica americana e l’implosione del sistema dei partiti ha a che fare molto con la perdita di centralità dei media tradizionali, consolidati vettori di formazione politica, mentre in termini globali, gli USA, pur rimanendo l’attore più rilevante nel sistema mondo, non solo non ricoprono più il ruolo centrale che hanno avuto nel XX secolo, ma in sempre più occasioni si sono caratterizzati per contestare le stesse regole dell’ordine che hanno in gran parte plasmato a partire dalla Guerra Mondiale.
Assisteremo dunque al riflusso verso un nuovo isolazionismo? Possiamo aspettarci il ritorno delle tendenze unilateraliste tradizionalmente carsiche nella politica di Washington? Vedremo il rimbalzo dell’erraticità diplomatica e negoziale che ha caratterizzato gli Stati Uniti negli a cavallo della pandemia? Probabilmente sì, anche se non è semplice adesso misurare l’ampiezza di tutto questo. Come sempre, parlare del futuro è complicato, ma sulla luce delle tendenze strutturali sopra menzionate possiamo esercitarci su alcune riflessioni relative all’evolvere della politica estera statunitense.
Mi soffermerei a riflettere su tre questioni grande importanza che, per chi si interessa di politica globale, e in particolare chi osserva gli aspetti legati alla sicurezza, probabilmente saranno investite dalla nuova postura trumpiana.
La prima è la relazione con Mosca e Kiev nel contesto della guerra russo-ucraina. Negli anni dell’ormai quasi trascorso mandato Biden, Trump non ha fatto mistero che a differenza dei democratici sarebbe stato capace di risolvere il conflitto in modo rapido ed efficace. Al di là dei toni da campagna elettorale, è certo che alla luce del noto rapporto con Vladimir Putin, alcuni commentatori hanno ipotizzato che il Presidente repubblicano sarebbe stato disponibile ad accondiscendere ai desiderata della Russia, consegnandole il destino dell’Ucraina. Difficile che si verifichi uno scenario delicato con questi contorni netti. ‘The Donald’ ci ha abituato a una trattativa spregiudicata, cinicamente pragmatica, capace ottenere dei risultati utilizzando strumenti della politica globale non esclusivamente riconducibili alle ‘educate’ ragioni della diplomazia e delle regole internazionali. Potremmo dunque assistere un negoziato, latente e informale, che prenda in considerazione forme di pressione sulle controparti in lotta, mediante ricatti in termini di forniture di armamenti (su Kiev) o autorizzazione all’utilizzo di materiale bellico occidentale per operazioni offensive in territorio russo (su Mosca).
Il secondo teatro dove conviene aspettarsi cambiamenti è quello del Medio Oriente, nella guerra che ormai è difficile definire solo limitata a Gaza o tra Israele ed Hamas. Nel primo mandato trumpiano, l’asse tra la Casa Bianca e Benjamin Netanyahu ha contribuito a quelli che sono passati alla storia col nome di ‘accordi di Abramo’, al tempo stesso avvicinamenti di valenza epocale tra Israele e alcuni Stati arabi o a maggioranza musulmana, e allineamenti per la creazione di un’architettura di sicurezza con forte valenza anti-iraniana. Il ritorno dei repubblicani consolida la vicinanza tra la Washington Israele, e ciò potrebbe produrre un ulteriore recrudescenza del conflitto, parallelo a un inasprimento delle relazioni tra Tel Aviv/Gerusalemme e Teheran.
Ucraina, Medio Oriente dunque due sono guerre regionali che per natura degli attori e/o delle questioni coinvolti hanno valenze transregionali, ma che hanno un significato politico totalmente differente per gli USA. Se nella prima, Trump potrebbe anche giocare in modo stemperare le tensioni, trovando un accomodamento non ‘giusto’ o secondo il diritto, ma forse solo ‘funzionante’, nella seconda il Presidente repubblicano potrebbe invece alimentare le criticità e consolidare la tendenza di Israele a trasformare questo conflitto ne redde rationem con l’Iran. Per la Washington di Trump, quello dell’Europa orientale non è un ambito territoriale di rilevanza centrale, così come il Vecchio Continente nella sua interezza non riveste l’importanza che storicamente ha avuto nel passato. Ma un ‘accomodamento’ nella guerra europea, per Trump è comunque di determinato rilievo, soprattutto nel tentativo di impostare una relazione costruttiva con Mosca nell’ottica di preparare gli USA al confronto con Pechino, materia invece che conta tantissimo, così come nel passato, nell’agenda presidenziale. Nel triangolo della geopolitica globale, Washington sa che sul lungo periodo non può essere contemporaneamente competitor della Russia e della Repubblica Popolare Cinese, e per Trump la prima è meno problematica della seconda. Ciò non significa che il Tycoon sarà disposto a vedere Kiev sull’altare dell’appeasement verso Mosca. Come tutti i leader carismatici Trump ha bisogno di successi, così come al di là della retorica, conosce bene l’importanza di mantenere credibile il ruolo degli Stati Uniti quale fornitore di sicurezza.
È in effetti nel rapporto con Pechino che il nuovo mandato Trump troverà il test più importante, e dunque è a questa relazione che gli osservatori dovranno prestare particolare attenzione, perché si tratta di una issue che ha davvero carattere sistemico. Durante gli anni del primo mandato trumpiano, le ‘trade wars’ tra gli Stati Uniti e la RPC hanno fortemente caratterizzato la torsione protezionista dell’economia globale, mentre ambienti sempre più ampi della politica statunitense hanno preso consapevolezza dell’importanza strategica del rapporto commerciale. Con l’atteggiamento assertivo, il Tycoon ha ottenuto poco dalla PRC, oltre che veder deteriorare i rapporti anche con gli alleati tradizionali, che hanno mal digerito la nuova assertività USA. Dal 2017 si è iniziato a parlare di una nuova Guerra Fredda tra i due giganti e non sono mancati autori e analisti che hanno parlato di un possibile scontro militare. Ma, dal momento che le regioni strutturali che mettono Washington in rotta di collisione con Pechino non sono cambiate, ed anzi le variabili di fondo sono confermate, è probabile che nei prossimi anni si riattivino tutti i meccanismi di dialogo muscolare che sono stati impostati nel quadriennio precedente e che, in ultima istanza, nemmeno l’Amministrazione Biden aveva abbandonato. La dipendenza americana verso beni e materiali cinesi, gli squilibri nella bilancia dei pagamenti, il trasferimento di capacità industriale e di alta tecnologia sono problemi che non concernono solo le performance USA relative alla crescita, ma impattano sulla tenuta del ceto medio, e dunque sulla qualità delle istituzioni democratiche, e sulla posizione o sul ruolo che Washington ha nel mondo.
Per concludere, è plausibile che il nuovo mandato repubblicano si caratterizzerà da elementi di continuità tanto con il primo quadriennio presidenziale, tanto con alcune delle scelte compiute dagli stessi democratici, a conferma che la declinazione degli interessi nazionali non hanno un andamento elastico rispetto ai cambi di maggioranza governativa. D’altro canto, però, ancora più accentuata è possibile che risulti la tendenza dell’America trumpiana alla discontinuità rispetto alla tradizionale politica estera USA, essendo il nuovo Presidente l’interprete di una nuova fase nella storia di questo Paese, prodotto, produttore e acceleratore di cambiamenti che, come dicevamo, attendono sul medio-lungo periodo storico tanto alla dimensione interna, quanto internazionale degli Stati Uniti.
Mireno Berrettini è professore ordinario di Storia delle relazioni internazionali presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore.