di Claudio Fontana
Non è certo una sorpresa dire che l’esito delle elezioni per il presidente della Nazione più potente del mondo avrà ripercussioni su vaste aree del globo. Forse per la natura del personaggio, siamo portati a ritenere che il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca avrà effetti dirompenti anche sulla politica estera statunitense e, di conseguenza, sulle sorti di varie regioni del mondo, Medio Oriente e Ucraina in primis. Forse sarà così. Ma un certo grado di cautela potrebbe tornare utile. Senza dubbio, lo stile del tycoon è quanto di più diverso ci sia da quello di Joe Biden e Kamala Harris, e con ogni probabilità il presidente-eletto imposterà le relazioni statunitensi con il resto del mondo su base bilaterale e non multilaterale. Nella sua azione Trump potrà contare sul controllo di Corte Suprema e Congresso, ciò che potrà facilitare anche l’adozione di trattati internazionali come il vociferato accordo di sicurezza con l’Arabia Saudita, se mai si farà. Tuttavia, pur basandoci su quanto detto (in campagna elettorale) e fatto (durante il primo mandato) se c’è una cosa che Trump ha insegnato è che la traiettoria della sua politica può essere meno lineare e più contraddittoria di quanto ci si possa attendere. Inoltre, mentre in Europa la vittoria del candidato repubblicano è vista come un pericolo, in altre zone è stata accolta con favore, per esempio tra le monarchie del Golfo Persico. Per citare un solo caso, sui quotidiani di proprietà saudita ci sono espressioni di entusiasmo per quella che viene individuata come la fine dell’“obamismo”, che sarebbe responsabile delle guerre in atto in Medio Oriente e Ucraina: «ci troviamo di fronte a una nuova ed emozionante fase, assisteremo a grandi eventi e trasformazioni», si legge su al-Sharq al-Awsat. Giova osservare, però, che se è proprio dalla prima presidenza di Barack Obama che gli Stati Uniti hanno iniziato a diminuire il loro coinvolgimento diretto a sostegno degli alleati mediorientali (Israele a parte), le premesse con cui Trump si appresa a rientrare nello Studio Ovale non sono troppo differenti.
Paradossalmente, perciò, la seconda presidenza Trump avrà effetti sull’“ecosistema” mediorientale sia che continui nel disimpegno dalla regione, ciò che creerebbe un vuoto di potere che altri attori cercherebbero di riempire, sia che invece decida di tornare a un coinvolgimento diretto nell’area, magari costretto a farlo dagli alleati più che dai nemici. È bene osservare, però, che gli ultimi quattro anni di amministrazione Biden-Harris hanno fornito indicazioni contrastanti: sebbene il presidente democratico uscente si fosse presentato con un’agenda che doveva essere in tutto e per tutto l’opposto di quella del predecessore, le cose sono andate diversamente. L’ha sintetizzato efficacemente Mark Lynch, direttore del Project on Middle East Political Science (POMEPS), il quale al contrario di molti ritiene che l’elezione di Trump avrà conseguenze limitate sul Medio Oriente. E non tanto perché non «abbia [in mente] una serie di pessime politiche per il Medio Oriente, ma perché la politica di Biden in quella regione è stata quasi identica a quella di Trump» durante il suo primo mandato. Dunque il secondo mandato Trump potrebbe essere incredibilmente simile a quello appena terminato di Biden, la cui politica estera, specialmente mediorientale, è stata caratterizzata da dolorose inversioni di rotta. Iran e Arabia Saudita sono i due casi più eclatanti: Biden si è presentato alla Casa Bianca affermando di voler rientrare nell’accordo sul nucleare con Teheran e di rendere Riyad un paria internazionale per l’uccisione di Jamal Khashoggi e la sanguinosa guerra in Yemen. Ne uscirà avendo rafforzato i legami con il Regno guidato da Muhammad bin Salman e con il livello dello scontro con la Repubblica Islamica sempre più alto.
Detto dell’imprevedibilità di Trump, è bene fissare alcuni punti. È ragionevole attendersi che il presidente-eletto si atterrà alla formula degli Accordi di Abramo da lui inaugurata, cercando di portare altri Paesi del Medio Oriente a farne parte – da buon deal-maker quale non perde occasione di definirsi. L’indiziato principale sarà l’Arabia Saudita. Ma anche in questo caso, non è una grossa novità: poco prima del 7 ottobre 2023, e persino nei mesi seguenti, Biden ha esercitato pressioni affinché Riyad normalizzasse i rapporti con Israele. Le difficoltà però aumentano giorno dopo giorno. Più Israele persevera nella sua guerra a Gaza e in Libano, più i sauditi avranno bisogno di un incentivo maggiore per “vendere” alla popolazione saudita e al mondo musulmano in generale la normalizzazione con lo Stato ebraico. In particolare, e dal Regno l’hanno chiarito a più riprese, non è più pensabile riconoscere Israele fintanto non vi sia un reale percorso per la creazione di uno Stato palestinese. Ma questo è precisamente ciò che l’attuale leadership israeliana è impegnata a prevenire, anche con il costante aumento degli insediamenti in Cisgiordania. Dall’altro lato, il fatto che a differenza delle amministrazioni democratiche Trump non consideri il rispetto dei diritti umani uno dei criteri orientativi della sua politica estera potrà facilitare le relazioni con un Paese come l’Arabia Saudita. Lo stesso potrà dirsi per altri alleati mediorientali, come l’Egitto o gli Emirati Arabi Uniti. A gravare sui rapporti con gli Stati Uniti saranno piuttosto le relazioni intessute con la Cina, soprattutto nel caso di Abu Dhabi e Riyad. Con gli alleati mediorientali, e specialmente con quelli del Golfo, l’approccio trumpiano continuerà probabilmente a essere transazionale, con enfasi su accordi economici, vendita di armamenti e cooperazione in materia di anti-terrorismo, vagamente definita.
L’altro punto fermo è l’ostilità nei confronti dell’Iran, che ha già prodotto un primo, indicativo, esito: appena saputa la notizia della rielezione, il rial iraniano ha toccato il suo minimo storico. Sotto questo profilo Benjamin Netanyahu potrà contare su un alleato in più, soprattutto se Trump includerà nella sua amministrazione falchi anti-iraniani, ciò che resta probabile nonostante siano stati esclusi ruoli per Mike Pompeo, Tom Cotton o Nikki Haley. Come se non bastasse, la notizia di un piano iraniano per assassinare Trump prima delle elezioni rischia di indirizzare fin da subito il corso degli eventi, malgrado la smentita iraniana. Sul tavolo c’è la realizzazione di una maximum pressure 2.0 ancora più aggressiva della versione messa in atto dopo il ritiro americano dall’accordo sul nucleare nel 2018. È a questo punto, però, che tornano le incognite. Come coniugare l’ulteriore innalzamento della tensione che tale politica causerebbe, peraltro in una regione già sull’orlo di un conflitto regionale, con l’obiettivo dichiarato apertamente di porre fine alle guerre in Medio Oriente e in Ucraina? L’idea trumpiana della “pace attraverso la forza” può risultare controproducente.
Claudio Fontana è Analista e Program manager presso la Fondazione Oasis, e PhD candidate in "Istituzioni e Politiche" presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore.