di Tommaso Rossi e Saverio Gileno *
È possibile coniugare democrazia e illiberalismo? Questa domanda è stata al centro del seminario di studio dedicato al futuro delle democrazie (illiberali) organizzato da Polidemos lo scorso 19 aprile. Dopo i saluti del professor Damiano Palano, Antonio Campati ha avviato i lavori illustrando le finalità dell’incontro e sottolineando come il termine “democrazia illiberale” sia tornato in auge negli ultimi anni con un carico di problematicità – a livello concettuale – non trascurabile. Al termine dell’incontro, abbiamo rivolto delle domande ai relatori del seminario, che hanno ripreso e approfondito alcuni passaggi dei loro interventi.
Per Andrea Cassani dell’Università degli studi di Milano, la teoria delle ondate e dei riflussi di Samuel Huntington ha senz’altro il merito di cogliere alcune dinamiche macro (corsi e ricorsi storici nei trend di diffusione globale della democrazia), ma non deve essere presa come una profezia che si auto-avvera. Infatti, ci spiega che: «al di là del fatto che l’epoca contemporanea possa o meno essere correttamente interpretata come una nuova fase di riflusso, non c’è nessuna ragione – in base alla teoria di Huntington – per ritenere né che ‘tutte le democrazie siano in pericolo’ né che ‘alcune democrazie siano del tutto sicure’. Quello che possiamo dire, sulla base dell’esperienza recente, è che l’entità del rischio di sperimentare un processo di autocratizzazione è correlato a due fattori, che a loro volta sono tra loro correlati: il livello di sviluppo socioeconomico e il livello di consolidamento delle istituzioni democratiche». In altre parole, prosegue, «le democrazie di più lunga durata e con economie avanzate si sono finora dimostrate resilienti, mentre le democrazie di più recente instaurazione e con economie in via di sviluppo si sono dimostrate più instabili».
Naturalmente, tale riflessione deve essere inserita all’interno del contesto internazionale liberale, sempre più incalzato da sfide impegnative, come ha spiegato Enrico Fassi dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, secondo cui soprattutto l’ascesa di Cina e Russia, e in particolare la loro attuale postura internazionale, rappresenta senza dubbio una sfida per il futuro dell’ordine liberale nel suo complesso, e in particolare per l’Europa che per molti versi è un cardine indispensabile di quest’ordine. Spiega però che «ci sono tuttavia diversi fattori da considerare per comprendere l’effettiva portata di tale sfida. Innanzitutto, sebbene si tratti di due potenze “revisioniste” rispetto agli attuali assetti internazionali, le loro traiettorie e i loro obiettivi potrebbero non essere coincidenti o pienamente compatibili – a partire da un diverso atteggiamento nei confronti dell’Europa. Al di là della comune contrapposizione all’egemonia statunitense, rimane quindi dubbio se quello che ad oggi è un allineamento tattico e momentaneo possa tradursi in un’alleanza più strutturata, anche se inevitabilmente asimmetrica in favore di Pechino. In secondo luogo, non è evidente la capacità di queste due potenze di tramutare un certo orientamento antioccidentale, sicuramente diffuso in buona parte del “Sud Globale”, in una disponibilità da parte di molti di questi paesi ad accettare una leadership cinese (o sino-russa) ed abbracciarne il relativo modello politico-ideologico». In tal senso, aggiunge, «data anche la profonda integrazione della Cina nell’economia globale, appare improbabile il ritorno a una competizione tra blocchi chiusi e internamente omogenei simile a quella della Guerra fredda. Infine, ed è il punto che ci riguarda più da vicino, c’è da considerare il ruolo di Europa e Stati Uniti nel contrastare spinte illiberali al loro interno e nel continuare ad investire – congiuntamente – nella difesa dei principi e delle istituzioni dell’ordine liberale sul piano globale».
Quali sono le alternative all’ordine liberale? E da chi sono promosse? Secondo Flavia Lucenti dell’Università Luiss Guido Carli, da un punto di vista della narrazione, Cina e Russia continuano a difendere una idea di ordine internazionale, alternativo a quello liberale, che entrambe definiscono come «più equo e democratico». Ad oggi, continua, «lo sbilanciamento a favore della Cina, che da un punto di vista politico ed economico è preponderante rispetto alla Russia, non sta compromettendo la proposta per una governance globale dove sia Pechino che Mosca possono agire come grandi potenze, e dove il ruolo degli Stati Uniti, e dell’Occidente in generale, ne esce inevitabilmente ridimensionato. Ciò su cui dobbiamo interrogarci, invece, è quanto la versione di un ordine internazionale basato su un nucleo minimo di norme ed istituzioni, di cui la Cina e la Russia si fanno portavoce, e che non ha per obiettivo la difesa dei valori liberali, stia diventando attraente per altri paesi, in particolare, quelli del Sud Globale».
Un caso sicuramente emblematico è quello della Serbia. Negli ultimi anni, ha mostrato gravi e costanti peggioramenti in tutti i parametri che caratterizzano una democrazia liberale: dalle influenze politiche sulle nomine, al problema della separazione dei poteri fino ad arrivare al più grave caso, quello relativo alla giustizia. Per evitare che questa tendenza si accentui sempre di più, il processo di integrazione europea è l’unica opzione possibile? Per Carlotta Mingardi dell’Università di Bologna, il processo di integrazione europea per la Serbia non costituisce, tecnicamente, l’unica via di cooperazione possibile, ma rimane necessario a livello strategico. Infatti, osserva che: «la regione dei ‘Balcani Occidentali’ resta il banco di prova per la credibilità dell’UE nella sua capacità di porsi come attore internazionale. Inoltre, la Serbia presenta forti legami con paesi come Cina, Russia e (con minor peso, ma pur presente), Turchia: attori che hanno rinsaldato la propria presenza in loco anche traendo vantaggio dal disinteresse politico mostrato dall’Unione nell’ultimo decennio e la cui influenza è stata più volte usata dalle élite locali come leva nei confronti della stessa UE. Detto questo, il tema dello slittamento democratico è urgente: la revisione, in ottica più stringente, della metodologia del percorso di Allargamento (2020) ne sottolinea l’importanza. Tuttavia, se Freedom House, per esempio, identifica la Serbia (e altri paesi della regione) come paese ‘in transizione/regime ibrido’, usa questa stessa denominazione anche per l’Ungheria, già Stato membro dell’UE. Ciò evidenzia la necessità di dotarsi di strumenti atti a contrastare efficacemente tali slittamenti, già dall’interno dell’Unione, proponendo un modello solido, credibile e coerente con i valori fondativi anche all’esterno, limitando le possibilità del verificarsi di uno scenario simile a quello di un’Unione ‘a due democrazie’».
* Studenti del Corso di Laurea Magistrale in Politiche pubbliche - Modelli e strumenti per la gestione del welfare e dello sviluppo sostenibile (MOST)