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Il Brasile dopo la condanna di Bolsonaro

Il Brasile dopo la condanna di Bolsonaro

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Samuele Mazzolini

 

Sorvolata costantemente da droni e sottoposta a misure di sicurezza eccezionali, la igrejinha, un curioso edificio a forma cilindrica rassomigliante a una chiesa nel quale si riunisce la prima sezione del Tribunale Supremo Federale, è stata testimone di un momento storico per il Brasile. L’11 settembre, Jair Messias Bolsonaro, presidente tra il 2019 e il 2023, si è infatti visto comminare in questa sede oltre 27 anni di carcere per aver tentato di organizzare un colpo di stato e perpetuarsi illegittimamente al potere. Insieme a lui, altri sette co-imputati hanno ricevuto pene di lunghezza variabile a seconda dei diversi gradi di coinvolgimento nella trama golpista. L’importanza del verdetto risiede proprio nel fatto che, per la prima volta nella storia del paese, i protagonisti di un tentato sovvertimento dell’ordine democratico vengono messi di fronte ai propri crimini.

La condanna è giunta in virtù di un dibattimento durato quasi due anni, nel quale è stata provata l’esistenza di una vera e propria organizzazione criminale, con diversi piani di azione per impedire l’insediamento di Lula al potere, tra cui l’assassinio dello stesso, del suo vice Geraldo Alckmin e del giudice supremo Alexandre de Moraes. Come stabilito dalle indagini, se il colpo di stato non è avvenuto non è stato certo per il venire meno dell’intenzionalità da parte dei suoi organizzatori, bensì per la loro incompetenza, nonché per l’indisponibilità all’avventura dei vertici militari.

Una rivista tutt’altro che sospettabile di simpatie progressiste come The Economist ha definito il processo a Bolsonaro come una lezione di maturità democratica per gli Stati Uniti, dove eventi non dissimili hanno portato, sotto il profilo giuridico, a un sostanziale nulla di fatto. Che una democrazia giovane come quella brasiliana, perseguita dal fantasma di una tradizione golpista e attraversata da una forte polarizzazione politica, gestisse fatti di simile portata con adesione quasi weberiana allo stato di diritto, mentre una democrazia secolare come quella nordamericana seguisse un corso diametralmente opposto, non era affatto scontato. Ciò dimostra, in particolare, il consolidamento del Tribunale supremo, che in questa fase storica sta fungendo da zelante guardiano della Costituzione della Nova República, mettendola al riparo dalle evidenti storture degli altri poteri – quando non, come in questo caso, da veri e propri disegni eversivi.

Non è stato dello stesso parere il presidente statunitense Donald Trump, il quale, per sottrarre il proprio alleato ideologico alle maglie della giustizia, ha lanciato nei mesi precedenti alla sentenza un attacco al relatore del processo contro Bolsonaro, il già menzionato giudice de Moraes, fatto oggetto delle dure sanzioni previste dalla legge Magnitsky. Brandendo, come ormai di consueto, il discorso della libertà di espressione contro una presunta persecuzione politica, Trump ha inoltre comminato dazi al 50% per l’export brasiliano, sollecitando il suo omologo brasiliano a intervenire in barba a qualsiasi divisione dei poteri.

La strategia trumpiana è stata debitrice della sistematica azione di lobby da parte del figlio di Bolsonaro, Eduardo, domiciliato negli Stati Uniti da marzo e ormai assenteista cronico presso la Camera dei deputati, dove mantiene un seggio sempre più in bilico. Tuttavia, tale strategia non pare aver prodotto gli esiti attesi, e non solo per l’incapacità di condizionare l’orientamento del massimo organo giudiziario brasiliano. In quanto misura “punitiva”, i dazi hanno mancato il bersaglio. Il Brasile innanzitutto non è più così dipendente sotto il profilo commerciale dagli Stati Uniti come un tempo. Si stima che solo il 12% dell’export brasiliano abbia come destino il paese nordamericano. In secondo luogo, il governo di Lula ha messo immediatamente in campo una serie di provvedimenti palliativi per le filiere più colpite. Sono ora piuttosto gli esportatori statunitensi a temere misure di reciprocità, al vaglio dell’esecutivo brasiliano – basti pensare in questo senso che, negli ultimi 20 anni, la bilancia commerciale tra i due paesi ha mostrato una tendenza variabile, ma con un saldo generalmente favorevole agli Stati Uniti.

Ad ogni modo, è sotto il profilo politico che la manovra di Trump, ispirata dal figlio dell’ex presidente, ha dimostrato i limiti maggiori. I dazi hanno distanziato il settore produttivo dal bolsonarismo, il cui interesse particolare – la libertà del proprio beniamino – pare valere più delle imprese e dei posti di lavoro messi a rischio. Con un discorso fermo ma pacato, Lula ha qui avuto gioco facile nell’ergersi a difensore della sovranità contro le ingerenze statunitensi, mantenendo al contempo la disponibilità a una negoziazione, purché in condizioni di rispetto e parità. I sondaggi che, fino a pochi mesi or sono, lo vedevano politicamente infiacchito si sono ora ribaltati a suo favore. Eduardo Bolsonaro, e di riflesso il padre, sono stati di contro percepiti sempre più come degli avventurieri disposti a propiziare l’intervento esterno a qualsiasi costo, mettendo improvvidamente a repentaglio gli interessi nazionali. Una sensazione ribadita dall’ingenuo utilizzo di un’enorme bandiera statunitense nell’ultima manifestazione pro-Bolsonaro avvenuta a San Paolo all’indomani della condanna.

Non è un caso che all’ultima assemblea delle Nazioni Unite, il presidente degli Stati Uniti sia stato costretto a virare rotta. Nel discorso ufficiale pronunciato all’Assemblea generale, ha infatti parlato di Lula in termini elogiativi, aggiungendo che erano bastati appena 39 secondi di fugace incontro presso il Palazzo di vetro per constatare l’esistenza di un’ottima chimica. Le bizzarrie a cui ci ha abituato Trump non escludono ulteriori capovolte, ma sono un indice abbastanza fedele di un ripensamento sulla linea da seguire nei confronti del Brasile.

Anche sul fronte nazionale, i fatti successivi alla condanna di Bolsonaro hanno mostrato un corso altalenante. In particolare, l’epicentro delle polemiche è stato il Parlamento. Per inquadrare appieno la questione politica interna, è importante soffermarsi inizialmente sul ruolo delle cosiddette emendas parlamentares, uno strumento con cui i parlamentari destinano fondi federali a progetti locali e che negli ultimi anni hanno assunto un peso crescente nella politica brasiliana. Come è facile intuire, le emendas si prestano all’emersione di corruttele di stampo clientelare, specialmente a seguito della loro de-burocratizzazione, che rende il trasferimento di fondi sempre più snello e privo di controlli. Il loro uso illecito è finito già più volte nella mira del Tribunale supremo ed è proprio l’attivismo di quest’ultimo al riguardo ad avere messo in subbuglio alcuni partiti del cosiddetto centrão.

Il centrão è un gruppo di partiti brasiliani privi di un’ideologia fissa, i quali negoziano di volta in volta il loro sostegno al governo in cambio di posti e risorse. L’esposizione di diversi politici di questa coalizione alle azioni del Tribunale supremo ha creato una convergenza di interessi tra alcuni segmenti del centrão e la destra bolsonarista. I primi, interessati a una riforma costituzionale già da tempo in discussione che mira a ridurre il potere del Tribunale supremo e di altri organi giudiziari di avviare indagini o processi contro parlamentari; i secondi, anch’essi interessati a questa riforma, ma determinati soprattutto ad approvare un’amnistia nei confronti di Bolsonaro. Uno scambio di favori, in sostanza, il cui primo passo è avvenuto a metà settembre tramite l’approvazione, da parte della Camera dei deputati, della suddetta riforma e del regime di urgenza per il progetto di amnistia.

Il centrão e il bolsonarismo non avevano però fatto i conti con l’indignazione popolare. Già le prime reazioni digitali avevano indotto alcuni deputati, spaventati dall’eventualità di un crollo elettorale alle prossime legislative, a scusarsi pubblicamente per aver votato la riforma e a impegnarsi per impedirne la definitiva approvazione. Le massicce manifestazioni svoltesi in decine di città domenica 21 settembre hanno quindi messo fine a ogni velleità in questo senso. Sull’onda delle mobilitazioni, la Commissione costituzionale e di giustizia del Senato ha respinto la riforma, archiviando di fatto la pratica. In questo modo, anche la possibilità dell’amnistia si allontana dall’orizzonte. La democrazia brasiliana è per ora al riparo, ma il conflitto tra istituzioni e forze politiche continuerà a condizionare il suo futuro.

 

Samuele Mazzolini è ricercatore presso l'Università Ca' Foscari di Venezia

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