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Il 25 aprile, la memoria e il «fuoco segreto» delle istituzioni

Il 25 aprile, la memoria e il «fuoco segreto» delle istituzioni

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di Damiano Palano

 

Molti anni fa, in uno dei suoi romanzi probabilmente più sentiti, Italo Calvino mise in scena i tormenti di un intellettuale chiamato a svolgere il ruolo di scrutatore nel giorno di un’importante elezione. Proprio durante le operazioni di voto, quello scrutatore iniziava a interrogarsi sul profilo della ancora giovane democrazia italiana, presentendo il rischio che si potessero scambiare le istituzioni «per il fuoco segreto senza il quale le città non si fondano né le ruote delle macchine vengono messe in moto». Perché temeva che, impegnandosi solo a difendere le istituzioni, si finisse senza rendersene conto col lasciare «spegnere il fuoco».

In questi giorni, assistendo alle ennesime polemiche intorno alla Festa della Liberazione, è quasi inevitabile pensare a quel «fuoco segreto». E chiedersi se, dopo settantotto anni dopo il 25 aprile del 1945, non sia quasi del tutto spento.

Non è naturalmente la prima volta che la Resistenza viene messa in discussione. E non è certo un fatto così sorprendente scoprire che il Paese abbia una memoria divisa su un evento tanto importante del proprio passato. Nel corso della “Prima Repubblica” le battaglie riguardavano soprattutto il significato della guerra partigiana, e talvolta il tentativo di farne una rivoluzione incompiuta di cui condurre in porto gli obiettivi originari. Nel corso della “Seconda Repubblica” a essere oggetto di polemiche sono stati invece proprio il significato del 25 aprile, il valore della ricorrenza, il suo carattere “divisivo”, che a giudizio di alcuni sarebbe stato persino l’ostacolo da superare per giungere a una pacificazione nazionale e una memoria davvero condivisa. Di quelle discussioni, le affermazioni che negli ultimi giorni hanno scatenato tante reazioni rappresentano per molti versi l’onda lunga. Ma aggiungono una novità, che non deriva tanto dal fatto che alla guida del governo si trovi – per la prima volta nella storia repubblicana – la leader di un partito che, seppure indirettamente, risulta legato alla tradizione del neo-fascismo italiano. O anche che ad accendere la miccia delle polemiche siano state le affermazioni provocatorie giunte dalla seconda carica dello Stato. Il dato inedito su cui riflettere è invece la banalizzazione cui è soggetta una fase cruciale della nostra storia nazionale.

Non sarebbe affatto deprecabile che nuove generazioni di storici, di intellettuali e di cittadini si impegnassero a rileggere il passato da nuove prospettive, smontando magari luoghi comuni interpretativi, proponendo nuove letture ed evitando così che la Resistenza diventi una sorta di museo ossificato, da esibire come ornamento solo in occasione del 25 aprile. Anno dopo anno, la discussione sul nostro passato – non solo sul 25 aprile, ma anche su altre date simbolo della memoria nazionale – ha finito invece con l’essere semplificata fino alla caricatura e banalizzata in formule sempre più stereotipate, che ovviamente nulla hanno a che vedere con una discussione capace di condurre verso una memoria minimamente condivisa. E per cittadini ormai sempre più orfani di stabili appartenenze, spesso persino privi (soprattutto tra le nuove generazioni) di nette coordinate che consentano loro di orientarsi nella lettura del passato, la Resistenza è diventata l’argomento di una polemica da social network. Un tema capace magari di attivare un’effimera ondata emotiva, destinata però a riassorbirsi senza lasciare tracce significative, se non forse una crescente indifferenza nei confronti dei simboli fondanti della Repubblica.

Secondo alcuni politologi le democrazie occidentali sarebbero da tempo entrate in una fase di “deconsolidamento”. I cittadini si starebbero cioè allontanando progressivamente da un pieno sostegno ai valori democratici, senza approdare necessariamente a posizioni anti-democratiche, ma spostandosi piuttosto verso un sentimento di indifferenza, che colloca sullo stesso piano i regimi democratici e quelli autoritari. Queste ipotesi sono tutt’altro che condivise in modo unanime dagli studiosi. Ma certo non possono essere sottovalutate, specialmente nel contesto italiano. Anche perché, anno dopo anno, gli anticorpi di cui la società italiana è stata a lungo dotata sembrano sempre meno vigorosi.

È forse anche per questo che dovremmo guardare al 25 aprile riconoscendo in quella data le basi della nostra democrazia. Della Resistenza, delle sue diverse anime e della sua stessa storia è certo possibile (e anzi doveroso) discutere, badando bene a tenersi lontani dalla retorica. Ma è anche indispensabile riconoscere che in quel movimento popolare, nei venti mesi che precedettero la Liberazione dell’aprile 1945, prese forma un’esperienza di partecipazione collettiva, di passione e di mobilitazione che il Paese non aveva in precedenza mai vissuto e che di fatto – ancora prima che l’Assemblea costituente venisse eletta – contribuì a costruire l’edificio della nuova democrazia italiana. Come sappiamo fin troppo bene, di quelle passioni, nella nostra società smobilitata, anestetizzata e narcisista, rimane ben poco. Ma forse dovremmo avere cura di sorvegliare con più attenzione – e non solo il 25 aprile – ciò che resta del «fuoco segreto» di cui parlava il personaggio di Calvino. Perché, senza quel fuoco, anche le ruote delle macchine istituzionali più efficienti possono smettere di funzionare.

 

* Questo articolo è apparso su "Il Giornale di Brescia" il 25 aprile 2023.

 

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