Vladimir Rizov
I videogiochi sono ovunque. E trattandosi di un medium così ubiquo, il libro di Marijam Didžgalvytė, Everything to Play For. How Videogames Are Changing the World (Verso), arriva come un’introduzione a lungo attesa alla politica dei giochi e al loro potenziale trasformativo e radicale. Everything to Play For offre un panorama accessibile sul tema: in parte lettera d’amore al medium, in parte intervento teorico, in parte potente polemica su alcuni dei problemi più persistenti dei videogiochi. Il testo di Didžgalvytė è incisivo e complesso e include occasionali tocchi autobiografici.
Fin dall’inizio, Didžgalvytė avanza un argomento a favore dell’uso del termine «videogiochi» (videogames) al posto di «giochi di video» (video games), come riportato nell’Oxford English Dictionary. Questa recensione applica la terminologia dell’autrice e il suo argomento secondo cui i videogiochi di oggi sono «molto più che ‘video’ nella loro tecnologia e molto più che ‘giochi’ nei loro contenuti». Il primo capitolo, fondamentale, offre un racconto storico dello sviluppo dell’informatica. Qui, il tema dell’esclusione delle donne – in particolare delle donne nere – viene analizzato e connesso al problema persistente della misoginia nei videogiochi, sia tra i consumatori che tra gli sviluppatori. Questo approccio è importante perché affronta la rappresentazione in chiave anticapitalista, ossia come problematica lavorativa e come forma di occultamento dello sfruttamento capitalistico. Un evento chiave per la trasformazione dei videogiochi in merci, destinate quasi esclusivamente a un pubblico maschile, fu il crash del 1983-1985. Riprendendo il lavoro della giornalista Tracy Lien, Didžgalvytė sottolinea come il crollo fosse legato a compagnie come Atari, che chiusero gli stabilimenti in California e Limerick per spostare la produzione a Hong Kong e Taiwan, dove la manodopera era più economica. Didžgalvytė richiama continuamente l’attenzione sul fatto che i videogiochi sono prodotti complessi, con proprie storie di produzione, e dunque collocati all’interno della catena globale del valore capitalista. Da qui la necessità di prendere sul serio i videogiochi come nodi centrali di specifiche lotte sul lavoro e come elementi delle catene globali di produzione, estrazione e commercio. Il capitolo storico copre anche il predominio degli sparatutto in prima persona negli anni ’90 e la cooptazione del genere da parte di attori statali. Didžgalvytė nota che nel solo 1999 il Pentagono avrebbe speso 150 milioni di dollari in videogiochi a tema militare (50). Un esempio emblematico è America’s Army (2002), che lo stesso Pentagono definì un “dispositivo di comunicazione strategica” esplicitamente destinato al reclutamento nell’esercito americano, con un budget di marketing di 50 milioni di dollari.
Il capitolo successivo affronta il problema delle sparatorie scolastiche e dei videogiochi, con casi come Super Columbine Massacre RPG!. Didžgalvytė mette in luce il doppio standard con cui la cultura dominante tratta i videogiochi come artefatti di serie B, raramente degni di riconoscimenti critici, a differenza del cinema (si pensi agli elogi tributati a Elephant di Gus Van Sant). L’autrice affronta poi i nodi di violenza, misoginia e colonialismo nei videogiochi, chiedendosi cosa sia un “gioco politico” e discutendo i limiti delle narrazioni a sfondo politico. Sottolinea come la violenza provenga più dalle comunità di giocatori che dai giochi stessi. La rappresentazione delle donne nei videogiochi viene problematizzata mostrando tendenze ricorrenti: personaggi femminili coinvolti in imprese coloniali (Lara Croft nella serie Tomb Raider), nello spionaggio e nell’imperialismo (Chun-Li nella serie Street Fighter), oppure come vittime di violenza (Life is Strange). Didžgalvytė rifiuta di trattare la rappresentazione in modo acritico e insiste sul fatto che i videogiochi sono media complessi, intrecciati a comunità e pratiche molteplici. Lo stesso vale per la violenza: può essere strumento di competizione, ma anche veicolo di messaggi politici, come in Under Ash (2001), che mette il giocatore nel mezzo dell’occupazione israeliana in Palestina. Didžgalvytė respinge quindi l’idea che i videogiochi siano un incentivo diretto alla violenza, trattandoli invece come pratiche simboliche complesse che generano sottoculture e significati.
Questa analisi introduce il capitolo dedicato alle comunità di giocatori. Didžgalvytė cita numerosi esempi di gamer che considerano i mondi virtuali come autentici mondi sociali. Tra questi, i MMORPG come World of Warcraft e il loro sistema di distribuzione del bottino, con effetti sulla distribuzione economica delle gilde. Altri casi includono rivolte virtuali in Ultima Online (1997) e tattiche di boicottaggio. Un esempio recente è Hogwarts Legacy (2023), ambientato nell’universo di Harry Potter, che ha suscitato proteste per la rappresentazione della rivolta dei goblin, accusata di riproporre stereotipi antisemiti, nonché per la nota transfobia di JK Rowling. Ciò ha spinto molti giocatori a boicottare il titolo. Il caso è significativo perché mostra come i videogiochi possano ispirare azione politica, contrapponendosi alla tattica di destra del “review bombing” negativo. Il libro riassume con forza le forme di dissenso espresse nei mondi virtuali: «Un Gamergater è più vicino a un rivoltoso di Capitol Hill del 2021 che a un saccheggiatore di Ultima Online, il quale è più vicino a un rivoltoso di Tottenham, che a sua volta è più vicino a un manifestante antifascista» (117). Il capitolo menziona anche i gamer come agenti finanziari (lo short squeeze di GameStop) e come attivisti (reti neonaziste su Minecraft contrapposte a progetti collaborativi su larga scala a favore della libertà di stampa). Didžgalvytė mostra così la molteplicità delle forme di espressione politica nei videogiochi, ricordando sempre però come gli universi digitali esistenti si reggano spesso sullo sfruttamento del lavoro immateriale.
Nel quarto capitolo, Didžgalvytė esplora la capacità dei videogiochi di influenzare il cambiamento sociale. La questione viene posta in termini di efficacia: come possono (o potrebbero) i videogiochi sovvertire, informare o sfidare l’ordine sociale esistente? L’autrice tratta i videogiochi come arte contemporanea, richiamando sociologi e curatori come Pierre Bourdieu e Maria Lind, e paragonandoli a installazioni artistiche come Wheatfield (1982) di Agnes Denes, Idol Worship (2007) di Laura Keeble e Close Watch di Pilvi Takala (Biennale di Venezia 2022). Didžgalvytė considera i giochi oggetti artistici seri e li accosta a opere spettacolari che, tuttavia, possono mascherare lo sfruttamento del lavoro e accrescere lo status e la ricchezza materiale degli artisti. Passa in rassegna esempi di videogiochi come arte politica, tra cui Papers, Please e You Are Jeff Bezos (2018). Ciò apre l’interrogativo su che aspetto abbiano i videogiochi che vanno oltre la semplice dichiarazione politica. Il capitolo si chiude evocando Theodor W. Adorno: «i videogiochi sono un’espressione classica del modus operandi capitalista» (176). Didžgalvytė insiste ancora una volta sull’importanza di non fermarsi all’analisi delle narrazioni, ma di capire il medium come sito multilivello, interconnesso a livello globale e parte di lotte concrete.
L’ultimo capitolo si concentra su come i videogiochi vengono prodotti. Didžgalvytė discute il predominio di motori come Unreal e Unity e le condizioni di lavoro nell’industria dei grandi titoli AAA. Non trascura le pratiche di sfruttamento come il “crunch”, ma menziona anche il ruolo di razzismo e sessismo nel peggiorare le condizioni lavorative, insieme ai licenziamenti di massa improvvisi, sempre più frequenti dopo la pubblicazione del libro. L’autrice pone attenzione alla periferia dell’economia videoludica dell’Europa occidentale, evidenziando come il lavoro di QA sia spesso esternalizzato nell’Europa orientale e nel Sud globale. Didžgalvytė ricorda la crescente importanza dei sindacati riuniti sotto Game Workers Unite. Dopo la produzione, analizza la fase della curatela e della pubblicazione, discutendo i rapporti tra sviluppatori ed editori, i processi di consolidamento e le piattaforme di distribuzione come Epic e Steam, sottolineando le alte commissioni (Steam trattiene il 30% dei ricavi fino ai primi 10 milioni di dollari). Vengono trattati anche gli e-sport, con i rischi di corruzione, nepotismo e doping. A tratti, Didžgalvytė contrappone alle derive ipercapitaliste immagini di alternative possibili, come le LAN party universitarie dell’Europa orientale, viste come spazi di comunità e di potenziale radicale. Il capitolo si chiude sul tema dei rifiuti e dell’impatto ambientale della produzione videoludica, richiamando le pratiche estrattive nel Congo e i consumi energetici, aspetti spesso sottovalutati.
Il libro termina con un capitolo dal titolo evocativo, “Final Boss: Conclusion”. Didžgalvytė solleva la questione della totalità del capitalismo globale, rappresentato come un videogioco: come viene prodotto? Da qui deriva la domanda cruciale: come potrebbe apparire una produzione videoludica organizzata secondo modelli alternativi e non sfruttatori? Ci sono, scrive Didžgalvytė, «così tante sfaccettature da esaminare, sottolineare, rivoluzionare» (233). Everything to Play For offre un potente ritratto dei videogiochi come specchio del contesto sociale in cui sono prodotti, curati, fruiti e condivisi. Il libro è una sfida aperta alla politica radicale, mostrando i molteplici modi in cui giochi, gaming e gamer costituiscono un fronte di lotta per un futuro migliore.
Vladimir Rizov è Assistant Professor all’University of Sussex.
La versione originale di questo articolo, in inglese, è stata pubblicata su Marx & Philosophy Review of Books il 31/3/2025.