di Damiano Palano
“Abbiamo una costituzione che non emula le leggi dei vicini”, e “poiché essa è retta in modo che i diritti civili spettino non a poche persone, ma alla maggioranza, essa è chiamata democrazia”. L’orazione funebre pronunciata da Pericle durante la guerra contro Sparta, pervenutaci nella versione di Tucidide, è probabilmente la più convinta celebrazione della democrazia ateniese. E quando andiamo alla ricerca delle origini più remote della nostra democrazia è quasi inevitabile tornare proprio a quelle parole e all’esperienza di Atene. Ritenere che la nostra idea di democrazia sia davvero una fedele eredità del modello greco sarebbe però una notevole forzatura. Innanzitutto, perché probabilmente la democrazia diretta non fu davvero un’invenzione greca, bensì una modalità di presa delle decisioni sperimentata in molte altre società, che nelle città-Stato dell’Egeo venne formalizzata e stabilizzata in modo piuttosto rigoroso. In secondo luogo, perché la nostra concezione della democrazia ha ben poco a che vedere quella degli ateniesi, ma è piuttosto il risultato di una reinvenzione che ha progressivamente associato a un nome antico istituzioni e principi modellati nel corso di una storia iniziata nel Medioevo.
Un’affascinante esplorazione di questo itinerario è offerta dal politologo francese Yves Mény in Le vie della democrazia (il Mulino, pp. 248, euro 16.00), attraverso i luoghi simbolicamente più importanti dove si definì, passo dopo passo, la nostra idea del “potere del popolo”. Partendo dalla Pnice, la collina dell’Acropoli dove ad Atene si riuniva l’assemblea dei cittadini, e snodandosi tra l’Aventino, il Palazzo Pubblico di Siena, Worms e La Rochelle, il Parlamento di Londra, l’Indipendence Hall di Filadelfia, la sala della Pallacorda di Versailles, il Palazzo Carignano dove a Torino Carlo Alberto concesse lo Statuto, giunge fino a Gettysburg e a San Pietroburgo. Più che approfondire le tecniche con cui di volta in volta si decise di assegnare il potere di governo, a Meny interessa mettere in luce come siano mutate le risposte alla domanda “chi è il popolo?”. La storia della democrazia è infatti anche la storia della progressiva inclusione nella sfera della partecipazione politica di quelle componenti della società – innanzitutto le donne, ma anche i poveri, i lavoratori manuali, gli stranieri residenti – che, per varie cause, erano ritenute incapaci di poter deliberare autonomamente o che erano viste come potenzialmente pericolose per l’ordine interno. Pur modificandosi, i principi di fondo – ritiene Meny – erano già delineati fin dall’inizio: “l’origine del potere che non può che essere il demos, il popolo”, “la sfiducia nei confronti dei detentori del potere necessariamente delegato a pochi”. Nel corso dei secoli, il nucleo di fondo però si estese inglobando il principio del rispetto della libertà (di gruppo e individuale) e la dottrina della rappresentanza. E proprio il lungo viaggio compiuto dalla democrazia dimostra come siano sempre necessarie “la pazienza e la perseveranza” per rivedere le soluzioni adottate, la tolleranza e la prudenza nell’evitare di giudicare un sistema solo sulla base di alcuni aspetti formali e “l’immaginazione nell’arricchire e rinnovare instancabilmente il contenuto di questa forma di governo”.
Se nell’Atene democratica i cittadini dotati di diritti politici erano probabilmente non più del 10% della reale popolazione della città, anche le nostre democrazie devono fare i conti con una serie di esclusioni. Nel suo I non rappresentati. Esclusi, arrabbiati, disillusi (Edizioni GruppaAbele, pp. 142, euro 14.00), Valentina Pazé ragiona infatti sulle implicazioni di alcune trasformazioni che, nel corso dell’ultimo trentennio, hanno modificato la fisionomia dei nostri sistemi politici. A essere coinvolte non sono tanto le procedure elettorali, che rimangono il perno della democrazia liberale e che continuano a svolgersi nel rispetto del pluralismo e della competizione. Il punto è piuttosto che – per una serie di fattori fra loro talvolta intrecciati – da queste procedure rimane esclusa una porzione crescente di popolazione. Una prima categoria è costituita dai “nuovi meteci”, ossia quegli stranieri che – benché siano da molto residenti in un Paese e nonostante paghino i tributi – rimangono privi della cittadinanza e dunque del diritto di voto. Mentre per altri generi di esclusione ci si affida a criteri che si propongono di essere razionali (per esempio, l’assenza di autonomia di giudizio), in questo caso l’unica fonte dell’esclusione è lo ius sanguinis: un elemento che difficilmente convive con la celebrazione dei diritti della persona e dell’uguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge. Una seconda categoria di esclusi è composta invece da coloro la cui voce non viene rappresentata in Parlamento in virtù di meccanismi di ingegneria elettorale volti a “fabbricare” maggioranze compatte per garantire la governabilità. Infine, ci sono gli “autoesclusi”, coloro che – disillusi, traditi, orfani – decidono di non recarsi alle urne. E sappiamo quanto questa sorta di “Repubblica degli assenti” conti sempre più anche in Italia.
È dunque probabile – e auspicabile – che il viaggio della democrazia debba proseguire ancora, inventando soluzioni capaci di inglobare anche nuovi e vecchi esclusi. Pazé sembra però diffidare di strumenti come il sorteggio o i sondaggi deliberativi. La strada pare piuttosto passare per il rafforzamento degli strumenti della partecipazione e per la riconquista di quella “felicità pubblica” che può nutrire – più di ogni soluzione istituzionale e di ogni innovazione tecnologica – il tessuto civico di una comunità. E condurre a riscoprire, come scrive Pazé, “quell’emozione dello ‘stare insieme’ in uno spazio condiviso, per dar vita a qualcosa di nuovo, in cui Hannah Arendt ha intravisto l’essenza della libertà”.
Damiano Palano è Direttore di Polidemos
Questo articolo è già apparso su "Avvenire".