di Fabio Rondini
Il 2 aprile 2025, il Presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha annunciato l’imposizione di un dazio universale del 10% sui prodotti importati dagli USA da qualsiasi paese terzo e tariffe più alte per alcuni partner, tra i quali l’UE e la Cina. Alcuni settori sono rimasti esclusi da queste misure, quali quello automobilistico, energetico e farmaceutico. La decisione segue, tra le altre, l’imposizione di dazi al 25% sulle importazioni di alluminio, acciaio e prodotti derivati importati dall’Unione Europea e Canada, annunciata a febbraio. I dazi hanno già colpito le borse di tutto il mondo e potrebbe essere solo l’inizio. Molti studi hanno già analizzato l’impatto economico di questa mossa. Quali sono le radici di questa decisione e come evitare una guerra commerciale?
A livello multilaterale, l’escalation di dazi si inquadra in un contesto di grave e prolungata crisi dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC). Sul piano bilaterale, le relazioni commerciali USA-UE attraversano luci e ombre. In base alle statistiche della Commissione Europea, a livello di flussi commerciali e di investimento, la relazione USA-UE risulta la più sviluppata al mondo. Pur avendo attraversato fasi di regressione quali gli shock dell’11/09, la crisi finanziaria del 2008 e la pandemia, il commercio USA-UE ha conosciuto uno sviluppo costante, raggiungendo cifre imponenti (ben 851 miliardi di euro nel 2023 per il commercio di beni e 746 miliardi di euro nei servizi nel 2023). Anche il livello di protezione risulta storicamente basso e le dispute commerciali USA-UE interessano solo il 2% degli scambi. Durante la Presidenza Biden è stato introdotto il EU-US Trade and Technology Council, una piattaforma per rilanciare la collaborazione economica, la convergenza normativa e la riduzione di barriere commerciali, in particolare sul commercio digitale. Eppure, tale relazione è stata ultimamente messa in discussione da trasformazioni strutturali sull’arena internazionale, quali l’ascesa della Cina, il crescente interesse statunitense verso l’Asia già durante la presidenza Obama (c.d. “Pivot to Asia”) e l’allungamento delle catene di valore. Nondimeno, i due blocchi si percepiscono come concorrenti su diversi settori (vedi disputa Boeing-Airbus o nel settore automobilistico). A dimostrazione di ciò, ad oggi non esiste alcun accordo di libero scambio tra USA ed UE, dopo il fallimento dei negoziati sul Transatlantic Trade and Investment Partnership nel 2019. Possiamo notare, quindi, una certa continuità di approccio verso paesi che hanno un attivo commerciale con gli USA almeno dal secondo mandato Obama. Biden, addirittura, è stato il primo presidente americano dai tempi di Kennedy a non firmare un grande accordo commerciale, ma ha anzi ha bersagliato la Cina di dazi e restrizioni export su beni critici.
Alla luce di ciò, il ritorno di Trump risulta un evento relativamente contingente rispetto a dinamiche strutturali che hanno già modificato i rapporti transatlantici. L’ascesa di Trump si inquadra in un contesto di classe media americana impoverita, debito pubblico in aumento e delocalizzazione produttiva. Riprendendo l’approccio del suo primo mandato e ribadito in campagna elettorale, la nuova “Trade Policy Agenda” e il MoU “Fair and Reciprocal Tariff Plan” fanno emergere un approccio unilaterale “neo-Jacksoniano” in politica commerciale, per rendere l’America di nuovo grande sulla scena mondiale. Ciò si otterrebbe ridefinendo alcuni pilastri della globalizzazione, ridimensionando l’OMC (accusato di inefficacia e bloccato per la mancata nomina dei membri del Dispute Settlement Body, organo preposto alla risoluzione delle controversie commerciali), le aree di libero scambio (es. il Trans-Pacific Partnership già affossato nel 2017 e il North Atlantic Free Trade Agreement, sostituito con l’USMCA), e ponendo fine a pratiche commerciali che hanno portato il paese ad essere “raggirato”. La politica commerciale trumpiana mira alla difesa dei posti di lavoro americani dalla concorrenza estera, a riportare “a casa” le aziende statunitensi ed alla riduzione del disavanzo commerciale, visti come fattori di debolezza per perseguire una politica estera forte. La presenza di una bilancia commerciale in deficit è indicatore, secondo Trump, di quanto gli USA abbiano subito pratiche commerciali scorrette. Secondo il concetto di “reciprocità” sottostante l’imposizione dei dazi di Trump, il livello di dazio dipenderebbe non dall’imposizione di un dazio pari a quello imposto da una controparte agli USA, come tradizionalmente concepito anche nell’OMC. Il livello di tariffa, invece, dipenderebbe dal deficit commerciale accumulato dagli Stati Uniti verso quella specifica controparte. Per Trump, infatti, la presenza di un deficit sarebbe il risultato della presenza ingiusta di barriere tariffarie e non tariffarie verso gli USA. Il deficit della bilancia commerciale, pertanto, è un fattore cui porre rimedio immediatamente. L’imposizione di dazi assolve, quindi, tre funzioni:
- strumento macroeconomico, volto principalmente a ridurre lo squilibrio presente sulla bilancia commerciale americana e a proteggere alcuni settori chiave, in particolare quelli degli Stati della c.d. “Rust Belt” cruciali nell’esito delle elezioni americane. Questo, naturalmente, al netto dell’effetto inflazionistico innescato dai dazi sull’intera economia americana e non solo; visione, questa, promossa soprattutto da Jamieson Greer, attuale US Trade Representative.
- strumento “punitivo” nei confronti di paesi terzi per questioni commerciali (come comportamenti iniqui da parte di imprese di proprietà di stati stranieri o manipolazioni della moneta - Cina) e non (gestione dei flussi migratori - Messico).
- strumento di negoziazione esercitando pressione sui partner commerciali per ottenere condizioni più favorevoli, come nel caso dell’accordo “Phase One” concluso tra USA e Cina durante il suo primo mandato, o maggiori garanzie per le imprese americane su proprietà intellettuale o eliminazione di restrizioni al flusso di dati digitali e servizi.
Adottando questo modello, gli USA imporrebbero i dazi a Bruxelles non tanto come strumento punitivo (misura riservata principalmente a Cina ed ai paesi asiatici), ma come strumento macroeconomico per mitigare lo squilibrio nella bilancia commerciale USA-UE (definito come “absolutely brutal”), soprattutto in settori quali l’automotive e l’agricolo e come mezzo di negoziazione per ridurre barriere commerciali non tariffarie risultanti dalla complessa regolamentazione europea quali norme sanitarie e fitosanitarie, Digital Service Act, Digital Market Act e Digital Services Act, Corporate Sustainable Reporting Directive, ecc.
Dal canto suo, l’UE ha sempre sostenuto il multilateralismo (art. 21 Trattato dell’Unione Europea) come rimarcato anche nell’Agenda Strategica 2024-2029. Inoltre, ha fatto della sua potenza normativa ed economica i pilastri della sua politica estera. Nonostante i dazi su acciaio e alluminio introdotto a febbraio impattino relativamente poco sul PIL europeo, il dazio al 20% su tutti i beni esportati verso gli USA dall’UE sta già minando la fragile crescita economica europea, già condizionata dalla recessione della Germania, dalla concorrenza dell’export cinese e dai costi dell’energia, impattando negativamente sui consumi, sulla domanda e causando incertezza nei mercati.
Alla luce dei dazi di Trump, Commissione Europea, istituzione europea cardine in questo ambito, data la competenza esclusiva dell’UE in tema di commercio internazionale sancita dall’art. 3 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea, aveva già adottato ad aprile una risposta che si articola su due tranche di dazi per un valore complessivo dii 26 miliardi di euro su acciaio e alluminio. La Commissione, inoltre, non aveva chiuso la porta a eventuali negoziati con gli USA e non ha fatto ricorso al nuovo strumento di anti-coercizione (Regolamento UE 2023/2675), adottato nel 2023. A seguito della decisione del 2 aprile di Trump, Ursula von der Leyen ha annunciato la volontà dell’UE di proteggere i propri interessi, ma anche di continuare a dialogare con gli USA (“let’s move from confrontation to negotiation”) e di rinforzare i legami con altre nazioni che hanno a cuore la promozione del commercio libero e fondato su regole, quindi diversificando le fonti di approvvigionamento.
In conclusione, nonostante le sviluppate relazioni commerciali, emerge una divergenza ideologica radicale tra le due sponde dell’Atlantico sull’essenza stessa del commercio internazionale, della globalizzazione e del ruolo dell’OMC. Se l’obiettivo di Trump è di riequilibrare la bilancia commerciale americana, è probabile che siano imposti altri dazi. Alla luce di ciò, risulta difficile evitare l’esplosione di una guerra commerciale. L’escalation di dazi sarebbe dannosa per ambo le parti, indebolirebbe diversi settori economici e, nel complesso, le economie americana ed europea. Non è ancora chiaro quanto l’opinione pubblica statunitense, già preoccupata riguardo all’incremento dei prezzi, sia disposta a sostenere un eventuale aumento dell’inflazione ed una potenziale recessione generata dalla guerra commerciale. Per quanto riguarda l’UE, invece di ricorrere allo strumento anti-coercizione e all’imposizione di contro-dazi, occorrerebbe trovare il giusto equilibrio tra la protezione degli interessi economici, mostrare disponibilità a trattare con Trump su alcune tematiche (es. importazioni di gas) per non compromettere definitivamente il legame transatlantico e trovare ulteriori fonti di collaborazione. Il primo e forse più importante sarebbe la creazione di un asse comune in chiave anti-Cina, verso la quale l’UE ha adottato una posizione più assertiva su questioni di natura economica, pratiche commerciali scorrette e sull’assenza di reciprocità. Infine, l’imposizione di simili dazi potrebbe portare ad un cambio radicale nell’economia globale, alla trasformazione delle relazioni transatlantiche e condurre verso un regime internazionale sempre più multipolare.