Intervista di Sara Settimio a Lisa Parola
Spesso denunciati come tentativi di «cancellare la storia», negli ultimi anni gli episodi di iconoclastia di massa hanno ottenuto un’importante risonanza mediatica. In realtà, non si tratta di un fenomeno nuovo: già da tempo, sia negli Stati Uniti, dove il fenomeno è iniziato, sia in Europa, i monumenti vengono abbattuti per contestare la rappresentazione del potere dominante nello spazio pubblico.
Le statue, infatti, raffigurano nella scena urbana dei corpi fermi nel passato e raccontano solo una versione della storia, nascondendone altre possibili. Oggi, in uno spazio che è sempre più globale, complesso e dinamico, molte delle rappresentazioni veicolate dai monumenti non sono più accettabili e soggetti storicamente esclusi da quelle narrazioni iniziano a interrogarle, discutendo i loro simboli e rivendicando il proprio riconoscimento.
Sulla scia di questo dibattito, il 23 aprile presso l’Università Cattolica si è tenuta la presentazione del volume Giù i monumenti? Una questione aperta (Einaudi 2022) di Lisa Parola – storica dell’arte, curatrice di progetti di arte pubblica e socia fondatrice dell’associazione culturale a.titolo. L’evento faceva parte del progetto Cancel culture, politically correct, emotional behavior. Manipolazione, cancellazione e narrazione dei paradigmi delle disuguaglianze, promosso dal Dipartimento di Storia Moderna e Contemporanea. Elena Riva, professoressa di Storia moderna dell’Università Cattolica, ha aperto l’evento, al quale hanno partecipato anche Andrea Merlotti, storico e direttore del Centro Studi delle Residenze Reali Sabaude, e Monica Morazzoni, docente di rappresentazioni, paesaggio e turismo presso l’Università IULM di Milano, i quali hanno fornito un ulteriore contributo sul ruolo dei monumenti nella narrazione pubblica.
Durante la presentazione del suo volume, l’autrice ha sottolineato come la società abbia cambiato il suo modo di guardare i monumenti e sia necessario adottare nuove modalità di comprensione. Parola, incrociando le prospettive dell’arte con quelle della storia, si sofferma sul ruolo del basamento che ha sempre mostrato le statue nella loro verticalità, creando una distanza con lo spettatore. Oggi, si cerca di depotenziare tale verticalità, per porre le statue in dialogo con la comunità e renderle strumenti di riflessione civica. È importante, ha detto ancora, guardare «il rovescio dei monumenti», cioè metterli sotto una nuova luce per osservare cosa quei monumenti non riescano a dire.
A margine del dibattito, abbiamo rivolto delle domande a Luisa Parola per approfondire alcuni aspetti dei temi trattati.
Nel suo libro ha discusso ed esaminato diversi casi di abbattimento di monumenti, molti dei quali sono stati etichettati dai media, sia a livello nazionale che internazionale, come esempi di cancel culture. Tuttavia, Lei non utilizza esplicitamente questa espressione nel testo. Vorrei sapere se concorda nell’interpretare questi episodi come manifestazioni di cancel culture e quale sia la sua opinione a riguardo.
Ci tengo a precisare che una cosa è l’Europa e un’altra cosa sono gli Stati Uniti. Apprezzo molto la domanda sulla cancel culture proprio perché, come europea, non mi identifico con quel termine. Pertanto, non ho usato quel termine perché io mi ci riconosco. È lontana da me l’idea di eliminare dallo spazio pubblico le statue considerate problematiche, tranne quelle che hanno un basso valore artistico. Ad esempio, la statua di Indro Montanelli a Milano potrebbe essere rimossa proprio per questo motivo, oltre a tutte le altre implicazioni. Noi abbiamo uno sguardo prevalentemente eurocentrico ed è difficile adottarne un altro. Tuttavia, ci troviamo di fronte a un cambiamento e dobbiamo accelerare i tempi, soprattutto qui in Italia, perché le nuove generazioni hanno altri sguardi di cui dobbiamo tenere conto. Il problema di oggi è che la figura dell’artista, almeno in Italia, manca nella discussione sulla relazione tra spazio pubblico e statuaria, manca anche se forse è il principale responsabile di quell’oggetto, del suo significato e del senso che prende il contesto che ospita la sua opera.
Nel suo lavoro, ha posto l’attenzione sul ruolo del basamento come elemento che rende il monumento distante, segnando una separazione tra un «io» e un «noi». In relazione a questo concetto, come ritiene che l’arte contemporanea, attraverso il processo di «ri-significazione», possa trasformare i monumenti da rappresentazioni statiche e non dialettiche in strumenti che possano coinvolgere e rendere consapevole la comunità?
Il monumento è fatto principalmente dal basamento, prima ancora di chi lo ospita. Si tratta di quel supporto che ce lo fa apparire in un modo distante, non dialettico e statico. Per osservarlo, dobbiamo levare lo sguardo e tenere conto di una distanza, spesso molto ampia. Inoltre, il basamento è troppo stretto per accogliere un «noi». Spesso, l’unica figura rappresentata è quella del maschio bianco, sempre più problematica in alcuni contesti.
Tuttavia, il monumento può diventare uno strumento di riflessione civica se lo sappiamo interpretare correttamente, se intorno a questo nascono laboratori e riflessioni di vario genere. L’arte contemporanea può essere un modello in questo senso: dagli anni ’60 gli artisti hanno cercato di depotenziare il basamento e di considerare lo spazio pubblico come una realtà aperta. L’intervento dell’artista deve essere di depotenziamento e di «inciampo». La figura dell’inciampo è molto interessante per il monumento, perché l’inciampo non significa cadere, ma proiettarsi in avanti per poi ritrovare l’equilibrio. L’approccio al monumento dovrebbe considerare ciò che lo circonda. Attualmente, le pietre d’inciampo sono il monumento di arte pubblica più potente che esista, perché sono un’azione facile, ma necessitano di una persona che abbia conoscenza di una memoria ma che sia in grado di proiettarla oggi e intende proiettarla anche in un futuro. Un monumento che non accentra ma decentra, costruisce una geografia molto estesa. Questo tipo di monumento, che unisce varie storie, è tutto fuorché verticale: è orizzontale.
Un altro esempio fondamentale è, per me, l’opera Fragmentos (2017) di Doris Salcedo che rappresenta il monumento, o meglio il non-monumento del ventunesimo secolo. Doris Salcedo alla domanda istituzionale di un monumento per la simbolizzazione del processo di post-conflitto colombiano risponde con un contro-monumento, che invita all’azione e al processo. Non è un monumento nella sua forma definitiva, ma è tutto ciò che lo precede. L’artista raccoglie parte delle armi deposte dalle Farc, le fa fondere e le fa lavorare con un martello dalle donne che hanno subito violenza durante la guerra, trasformandole in piastrelle che compongono l’ingresso di una nuova Sede del Museo Nazionale d’Arte di Bogotà. Il contro-monumento è qualcosa che ci accompagna in una storia complessa, a differenza del monumento che è, invece, statico.
Nel libro ha dedicato un piccolo paragrafo al monumento nella rete. In particolare, ha riportato quanto successo nel marzo del 2015, quando uno studente, Chumani Maxwele, ha vandalizzato la statua di Cecil Rhodes nell’università di Cape Town. Questo gesto ha destato l’attenzione dell’opinione pubblica globale soprattutto per la diffusione che ha avuto a livello mediatico che ha esteso la protesta creando una partecipazione immediata. Alla luce di quanto succede oggi, in che modo i social media influenzano il modo in cui i monumenti sono percepiti e contestati nella società?
I social media sono centrali in questo contesto, ma sono uno dei tanti strumenti a disposizione. Tuttavia, è importante non escludere l’importanza del documento, della fonte e dell’interpretazione. Ovviamente, i social media sono strumenti di comunicazione che mettono in primo piano la performatività, e, soprattutto, lo spazio pubblico è fortemente performativo. Negli ultimi anni, il nostro sguardo è pieno di immagini di monumenti che cadono, perché essi possiedono un portato performativo molto potente. Nonostante ciò, non si deve escludere l’importanza di uno studio approfondito, poiché i social lavorano su un piano orizzontale, mentre noi abbiamo bisogno di un processo di analisi anche in profondità che oggi manca totalmente e che i social non sono in grado di fornire.