editoriale

Fino a qui tutto bene? La democrazia nel mondo di Donald Trump

Fino a qui tutto bene? La democrazia nel mondo di Donald Trump

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Damiano Palano

 

«Fino a qui tutto bene», diceva la voce fuori campo ne La Haine di Mathieu Kassovitz. Ed è quello che, in fondo, abbiamo ripetuto molte volte negli ultimi anni dinanzi a quanto accadeva nei sistemi politici occidentali. Gli eventi cui abbiamo assistito – la crisi globale scoppiata nel 2008 negli Usa, la crisi del debito sovrano nel 2011, il tracollo di forze politiche dalla lunga storia, i travolgenti trionfi elettorali di outsider che abbiamo etichettato come «populisti», l’assalto a Capitol Hill del gennaio 2021, l’avanzata delle formazioni di destra radicale, per restare ai casi più clamorosi – hanno certo alimentato più di qualche inquietudine e persino qualche allarme sullo stato di salute della nostra vita pubblica. Ma, presi uno per uno ed esaminati con attenzione, tutti questi avvenimenti, agli occhi dei più, sembravano escludere che vi fosse davvero una crisi della democrazia. Semmai, erano alcune specifiche istituzioni a funzionare male e a richiedere correttivi. L’infrastruttura continuava ad apparire solida, e d’altronde non sembrava profilarsi all’orizzonte nessuna proposta politica capace di porsi come alternativa alla democrazia liberale, uscita vincitrice dalla fine della Guerra fredda.

Per molti versi, non si ricava un’impressione diversa neppure dal più recente rapporto di Freedom House sulla libertà nel mondo, che pure non concede molto all’ottimismo e che non risparmia i toni allarmistici.  

Per il diciannovesimo anno consecutivo, l’organizzazione non governativa americana – che ogni anno, dal 1974, traccia una mappa della diffusione della libertà nel mondo – rileva un declino nelle garanzie dei diritti politici e delle libertà civili. Se trentaquattro paesi hanno fatto registrare un miglioramento, sessanta paesi sono andati nella direzione opposta. Nel 2024, in un anno in cui erano previste elezioni in aree cruciali del mondo, una delle principali cause del deterioramento democratico è stato legato alla violenza e alle repressioni sperimentate durante le campagne elettorali.In più del 40% dei paesi coinvolti (tra cui Francia, Giappone, Corea del Sud, Regno Unito e Stati Uniti), candidati sono stati aggrediti o addirittura assassinati. In molti regimi autoritari il voto è stato inoltre manipolato in vari modi, anche mediante l’arresto dei candidati dell’opposizione (per esempio, in Azerbaijan, Algeria, Russia e Rwanda), mentre le misure repressive sono state ulteriormente inasprite.

Stati in cui si sono registrati i livelli più elevati di peggioramento rispetto all’anno precedente sono stati per esempio El Salvador, Haiti, Kuwait e Tunisia (dove il presidente ha adottato severe misure repressive contro giornalisti, sindacalisti e oppositori politici). E naturalmente i livelli di garanzia delle libertà civili e dei diritti politici sono scesi nei paesi coinvolti da conflitti armati, come il Myanmar, l’Ucraina e Gaza. A spiccare in positivo, per un aumento dei valori rilevati, sono invece, in particolare, Buthan e Senegal, che ora Freedom House classifica come “liberi” (e non più “parzialmente liberi”), grazie all’adozione di elezioni competitive e all’avvio di riforme istituzionali.

Il numero di regimi democratici nel mondo tende complessivamente, se non a ridursi, a rimanere costante da quasi vent’anni. Sempre utilizzando i dati di Freedom House, nel 1978 i paesi classificati come liberi erano 47, dieci anni dopo erano 60, mentre nel 1998 erano diventati 88, avvicinandosi così a essere quasi il 50% degli Stati del pianeta. Tra il 1988 e il 2008 la percentuale dei paesi liberi passò dal 35,8% al 46,6%, mentre quella dei Paesi non liberi scese dal 37,6% fino al 21.8%. La spinta propulsiva della terza ondata si arrestò circa vent’anni fa e da allora lo stato della democrazia nel mondo – almeno secondo alcuni studiosi – avrebbe subito un generale peggioramento. A partire dal 2006 prese infatti a delinearsi una tendenza opposta, che negli anni seguenti si sarebbe ulteriormente confermata. Da allora, infatti, non solo il numero dei paesi liberi non è cresciuto, ma ha iniziato a decrescere. E nel nuovo rapporto Freedom House stima che i paesi liberi siano 85, quelli parzialmente liberi 51 e quelli non liberi 59 (si veda la tabella).

 

 

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Fermandosi a un esame puramente quantitativo, l’arresto dell’espansione delle democrazie non può essere messo in dubbio. Ma la portata della «recessione democratica» – sempre che sia legittimo usare questa espressione – sembrerebbe piuttosto limitata.  Allora, tutto sommato, potremmo ripetere ancora una volta che, nonostante tutte le difficoltà, fino a questo punto tutto stia andando bene, e che cioè le fondamenta delle istituzioni democratiche rimangono salde, quantomeno nel mondo occidentale. Guardati con attenzione, anche i dati di FH forniscono però un quadro meno rassicurante. A partire da quanto è avvenuto – e sta avvenendo – negli Stati Uniti.

L’indice globale delle libertà utilizzato da FH assegna a ciascun paese un punteggio che va da zero e 100 (il grado massimo di garanzia di libertà civili e diritti politici). Fra il 2014 e il 2021 questo indice ha fatto registrare per gli Stati Uniti una regressione da 92 a 83, un livello in cui è rimasto fino al 2025, quando è leggermente risalito (arrivando a 84). Su un simile declassamento incidono vari fattori, tra cui in particolare la crescita della polarizzazione politica. E d’altronde, per quanto simili rilevazioni non siano affatto immuni da critiche, rimane davvero difficile mettere in discussione il fatto che la politica americana sia sensibilmente cambiata dopo la crisi del 2008 e, in modo ancora più eclatante, dopo la conquista della Casa Bianca da parte di Donald Trump nel 2016 (oltre che, dopo l’assalto a Capitol Hill che segnò la conclusione del suo mandato).

Il sistema costituzionale americano riuscì in gran parte a neutralizzare l’impatto del primo quadriennio di Trump, ma il ritorno del tycoon newyorkese alla guida degli Stati Uniti, la squadra di governo di cui si è circondato e le sue prime mosse non possono che porre nuovi interrogativi sul futuro della più antica democrazia liberale. Steven Levitsky e Lucan A. Way, sull’ultimo numero di «Foreign Affairs», si chiedono se il ritorno di Trump a Washington non debba condurre a un inedito «autoritarismo americano». E la risposta che danno non è confortante. «L’America è sull’orlo di un autoritarismo competitivo», la nuova amministrazione ha già iniziato «a utilizzare le istituzioni statali e a usarle contro gli oppositori». Affidarsi solo ai presidi previsti dalla costituzione non può essere pertanto sufficiente, perché «anche le costituzioni meglio progettate contengono ambiguità e lacune che possono essere sfruttate per fini antidemocratici». E non è detto che la società americana abbia oggi la forza di elevare una barriera contro le tentazioni autoritarie: «L’opposizione sotto un autoritarismo competitivo può essere estenuante. Logorati da minacce e intimidazioni, molti critici di Trump avranno la tentazione di farsi da parte. Una simile ritirata sarebbe pericolosa. Quando la paura, la stanchezza o la rassegnazione soffocano l’impegno dei cittadini per la democrazia, l’autoritarismo nascente inizia a mettere radici».

Forse la diagnosi di Levitsky e Way – come molte altre che sono state formulate da osservatori non solo americani negli ultimi mesi – peccano di un eccesso di pessimismo e risentono del fatto che, inevitabilmente, gli scienziati sociali non possono essere mai davvero neutrali dinanzi al mondo che studiano. Ciò nondimeno, è chiaro a tutti che quanto sta avvenendo negli Stati Uniti è destinato ad avere conseguenze che non riguarderanno semplicemente la stabilità delle istituzioni democratiche americane, ma – con ogni probabilità – incideranno sulla fisionomia del mondo occidentale, o almeno su quell’assetto che abbiamo conosciuto dal 1945. Un assetto in cui la democrazia rappresentava è uno dei pilastri dell’ordine internazionale nato dalla Seconda guerra mondiale anche con l’obiettivo di evitare le derive autoritarie degli anni Venti e Trenta.

Naturalmente non sappiamo ancora che direzione imboccherà la politica internazionale dei prossimi anni, e fare previsioni sarebbe un esercizio puramente accademico. Tutto fa però sospettare che i rapporti transatlantici non saranno più quelli che abbiamo sperimentato negli ultimi ottant’anni e che la transizione verso un assetto multipolare – in cui già di fatto ci troviamo – moltiplicherà i fattori di incertezza, oltre che i rischi che i conflitti in atto si estendano e che nuovi ne sorgano in altre parti del pianeta.

Nella nuova stagione di diffidenza che ci attende, forse gli Stati Uniti abbandoneranno l’ambizione di promuovere e sostenere la diffusione della democrazia che hanno coltivato a lungo, soprattutto dopo il 1989 (spesso anche con conseguenze controproducenti). Almeno per l’Occidente questo potrebbe dunque implicare la definitiva scomparsa di quel «vincolo esterno» che dal 1945 ha plasmato anche gli assetti istituzionali di molti paesi europei. Le democrazie del Vecchio continente si troverebbero così in una situazione in parte simile a quella in cui, dopo la Grande guerra, le istituzioni dovettero fronteggiare – con esiti differenti – l’impatto dell’ingresso delle masse sulla scena politica. Anche se oggi quelle che le società occidentali devono affrontare non sono le tensioni della modernizzazione, bensì le lacerazioni prodotte da un lungo declino (politico, economico e demografico).  

Ciò che le rilevazioni quantitative sullo stato della democrazia e della libertà possono soltanto molto parzialmente registrare sono proprio gli esiti di questa trasformazione. Una trasformazione, sempre più rapida, che rischia di logorare ulteriormente – negli Stati Uniti, così come in Europa – la capacità delle costituzioni di regolare le dinamiche politiche. E che non può non alimentare qualche inquietudine sul futuro che ci attende.

Dunque, possiamo forse ancora dire, tutto sommato, «fino a qui tutto bene», evitando gli eccessi di pessimismo. Ma non dobbiamo neppure dimenticare che – come nel vecchio film di Kassovitz – «il problema non è la caduta, ma l’atterraggio».

 

Damiano Palano è Direttore di Aseri e Polidemos

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