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Filippine: la politica è una questione dinastica

Filippine: la politica è una questione dinastica

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di Raimondo Neironi

 

Una delle teleserye filippine di maggior successo degli ultimi vent’anni, Kung mawawala ka (“Se te ne andrai”), andata in onda tra il 2001 e il 2003, racconta le vicissitudini sentimentali di una coppia di giovani rampolli appartenenti a due dinastie politiche rivali. La trama si basa sugli iterati tentativi del protagonista, il governatore Leandro Montemayor, volti a impedire alla propria figlia di avere una relazione con il primogenito del deputato Carlos Valiente, a capo del clan antagonista.

Spesso la finzione cinematografica supera o amplifica la realtà, a partire da fatti di cronaca realmente accaduti, ma in molti casi essa è in grado di rappresentare perfettamente talune caratteristiche peculiari della società del tempo. A ben vedere, alcune delle dinamiche politiche e famigliari che ricorrono nella serie potrebbero aiutare a comprendere ciò che sta accadendo nella politica filippina da ormai un paio di mesi.

L’ex presidente della Repubblica, Rodrigo Duterte (2016-2022), ha accusato l’attuale inquilino di Palazzo Malacañan, Ferdinand “Bongbong” Marcos, di voler portare avanti l’annunciata riforma costituzionale per accentrare su di sé i poteri e gettare così le basi per l’avvio di una deriva autoritaria su modello di quanto Ferdinand E. Marcos, il padre di Bongbong, sperimentò nel 1972 con l’imposizione della legge marziale.

Il presidente ha rassicurato che la riforma è stata concepita al solo scopo di rendere le Filippine più attrattive agli investimenti esteri e ha, inoltre, dichiarato che le esternazioni di Duterte – gran parte delle quali minacciose e offensive – non trovano alcun fondamento logico. Malgrado Sara Duterte-Carpio – l’attuale vice-presidente, che occupa un posto all’interno dell’esecutivo – si sia sottratta agli attacchi che il padre e il fratello Sebastian (sindaco di Davao City) hanno scagliato contro Marcos, gli strascichi di questi mesi hanno incrinato l’alleanza elettorale (UniTeam) congegnata nel 2022 dalle due più importanti dinastie politiche del momento: quella dei Marcos-Romualdez, concentrata nella provincia settentrionale di Ilocos Norte, e quella dei Duterte, che ha nella provincia di Davao del Sur, nel Mindanao, il proprio feudo elettorale.

Questo processo di schismogenesi politica ci permette di tracciare una breve riflessione sulle dinastie politiche nelle Filippine e, in particolare, sul ruolo che esse rappresentano nel sistema di potere politico e socio-economico fin dal periodo della colonizzazione spagnola (meta del XVI secolo-1899) e statunitense (1902-1946). Gli studiosi del tema hanno fatto ricorso alle più disparate espressioni per definire in maniera netta i contorni di queste istituzioni: Benedict Anderson ha parlato di cacique (“signori feudali”), Alfred McCoy ha coniato il termine di “anarchie delle famiglie”, Jeffrey Winters quello di “oligarchie sultanesche”, altri ancora hanno invece impiegato vocaboli più convenzionali come “élite”, “clan” o “cricche”.

Già questi termini permettono di comprendere, anche a chi non è avvezzo all’argomento, che cosa esse siano e quale status ricoprano nella politica, nell’economia e nella società filippina; ciononostante ci ha pensato il legislatore a restituire una definizione circostanziata di dinastie all’interno di una proposta di legge, presentata nel 2018 al Senato proprio con l’obiettivo di eliminarle dalla scena politica. Le dinastie sono intese come gruppi di persone legate da vincoli di sangue, di affinità che concentrano, consolidano e perpetuano il potere politico, e che occupano le più importanti cariche pubbliche a livello sia locale sia nazionale.

In altri termini, ci si trova di fronte a una dinastia quando un nucleo famigliare allargato, unito da relazioni di parentela fino al secondo grado, controlla, influenza e condiziona ciò che accade nel contesto politico e socio-economico di un dato territorio, che corrisponde alla propria circoscrizione elettorale. Di norma, qualsiasi carica elettiva ricoperta da un membro di una dinastia è tramandata di famigliare in famigliare, di generazione in generazione, approfittando della sussistenza di determinate condizioni che consentono alla dinastia di mantenere saldo il potere.

Le dinastie politiche rappresentano il vizio congenito di quella che Julio Teehankee e Cleo Anne Calimbahin hanno definito come “democrazia imperfetta”. Il sistema istituzionale e i principi che oggi regolano lo Stato arcipelagico del Sud-Est asiatico sono racchiusi all’interno della Costituzione del 1987, promulgata a un anno di distanza della “Rivoluzione EDSA (Epifanio De los Santos Avenue)” che pose fine alla dittatura di Marcos Sr. La Carta fondamentale fu, allora, il frutto di un compromesso politico tra le élite che erano state private dal regime autoritario dei loro storici privilegi, e le classi svantaggiate, che invece ambivano ad avere voce in capitolo nei processi decisionali a livello sia locale sia nazionale. In sostanza, l’allargamento dello “spazio democratico” doveva procedere di pari passo con la messa al bando delle dinastie politiche.

All’art. 2, par. 26, la Carta prevede la cosiddetta “clausola anti-dinastie”, così chiamata perché lo Stato deve, da una parte, garantire l’equo accesso alle cariche e agli uffici pubblici a tutti i cittadini filippini che rispettano i requisiti di legge; dall’altra, proibire le vecchie dinastie politiche e scoraggiarne la nascita di nuove. Tale clausola, la cui lettura non trova un’unanime interpretazione tra politici e costituzionalisti, necessita dell’intervento del legislatore, che deve predisporre una norma che dia efficacia al contenuto dell’articolo. Al Kongreso, il Parlamento filippino, alcuni deputati e senatori hanno discusso negli anni diverse proposte di legge, che però si sono sempre rivelate un buco nell’acqua per via della massiccia presenza dei membri delle dinastie alla Camera dei Rappresentanti e al Senato.

Unitamente alla clausola, i costituenti decisero di introdurre il limite di mandato per tutte le cariche pubbliche. Almeno nelle intenzioni, con ciò si sarebbe voluto evitare che il candidato proveniente da una dinastia politica approfittasse del controllo capillare del distretto elettorale, delle proprie disponibilità finanziarie e del proprio circolo di clienti, intermediari e dirigenti pubblici condiscendenti per farsi eleggere e incrementare un consenso alimentato attraverso pratiche clientelari e, in alcune realtà, da gravi episodi di violenza. Nondimeno, non solo queste consuetudini sono sopravvissute nel tempo malgrado il dettato dalla Costituzione, bensì il candidato uscente che non si trova più nelle condizioni di correre per un altro mandato, di regola, passa il testimone a un suo famigliare – molto spesso ai figli – perpetuando così l’influenza e il controllo del clan sulla circoscrizione.

Vi era, infine, il problema di come allargare la partecipazione democratica a quelle categorie considerate ai margini della società, come contadini, popolazioni indigene, donne e giovani. Per ovviare a questa discriminazione, la Carta ha riservato il 20% dei seggi alla Camera, ripartiti con sistema proporzionale, alle “liste di partito”, ovvero a quei movimenti espressione della società civile che si affiancavano ai partiti politici tradizionali, ai quali spetta il resto dei seggi che sono assegnati su base maggioritaria. Se, da una parte, la platea di persone provenienti dalla società civile si è effettivamente ampliata, dall’altra élite vecchie e nuove si sono presto adattate facendo ricorso alle proprie risorse – finanziarie e non – e a stratagemmi elettorali per non farsi ingabbiare dalle nuove disposizioni. Le dinastie hanno creato delle proprie liste di partito cooptando persone della società civile, come dimostra l’esempio del movimento “Giovani per Duterte” che alle ultime consultazioni del 2022 ha appoggiato l’elezione di Duterte-Carpio.

Oggi la Camera conta, in tutto, 54 organizzazioni politiche della società civile che raggruppano 63 deputati provenienti da svariati settori della società, dagli agricoltori agli attivisti per i diritti dei disabili, dagli insegnanti ai rappresentanti sindacali dei motociclisti. La frammentazione che ne consegue non aiuta le liste a gettare le basi per una riconferma e, per di più, avendo minor peso politico in Parlamento rispetto ai partiti tradizionali molto spesso si accodano alle decisioni prese da queste ultime. Ciò, inevitabilmente, contribuisce a dilatare il divario della rappresentanza che la Costituzione intendeva restringere.

Peraltro, i partiti tradizionali non sono organizzati in strutture permanenti e accade, anzi, che siano manovrati dai membri delle dinastie politiche, che decidono di appoggiare il programma di governo dell’amministrazione sulla base di interessi politici e opportunità.

A scontare le conseguenze del deficit di rappresentanza tra élite e società civile sono le classi più disagiate. Diversi studi hanno, infatti, dimostrato che le province delle Filippine dominate dai clan famigliari sono quelle che registrano tassi di crescita più bassi, quelle dove mancano i servizi essenziali per la popolazione, la disoccupazione imperversa e il livello della povertà rimane stabile, tranne i casi in cui esso non peggiori del tutto.

Come era prevedibile attendersi, Marcos si è sempre opposto a una legge anti-dinastie perché ritiene che nessuna norma statale possa impedire a un candidato di concorrere a una carica pubblica, per il solo fatto che abbia un famigliare o un parente in politica o nell’amministrazione pubblica.

Indipendentemente dall’esito della diatriba tra famiglie all’interno dell’amministrazione, senza l’approvazione di una legge contro le dinastie è impossibile pensare né a una effettiva ridefinizione dello spazio democratico, né a un reale ricambio della classe politica. Contestualmente, l’abolizione delle dinastie non può concretizzarsi senza prima aver avviato una complessiva riforma del sistema politico filippino. Probabilmente, per i produttori televisivi la fine delle dinastie politiche significherebbe privare le sceneggiature delle teleserye di ottimi spunti ai quali ispirarsi.

 

Raimondo Neironi è Assegnista di ricerca presso l’Università degli Studi di Cagliari.

 

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