di Michele Gimondo
Che politica e menzogna abbiano un rapporto stretto non è una novità. Eppure, a giudicare dal dibattito pubblico degli ultimi anni, potrebbe sembrare che la disinformazione non sia mai stata così pericolosa: quasi ci trovassimo dinanzi a un salto qualitativo del fenomeno. Come spiega Serena Giusti in La disinformazione e la politica estera (Vita e Pensiero, 2023), il 2016 è stato da questo punto di vista lo spartiacque decisivo, con la vittoria elettorale di Donald Trump e della Brexit. Secondo i più critici, sarebbe stata la circolazione delle fake news a determinare tali infausti avvenimenti. A tale narrativa se ne contrappone un’altra, che trova spazio soprattutto al di fuori dei media tradizionali, secondo la quale le cosiddette fake news sarebbero invece un pretesto adottato dalle oligarchie occidentali per censurare le voci critiche. Il dibattito, o meglio lo scontro, tra le due posizioni è tutt’ora in corso e non promette di spegnersi a breve. Ecco allora che, pur trattando in modo particolare di politica estera, il libro di Giusti rimanda inevitabilmente a tale sfondo.
Il primo capitolo introduce il lettore alla complessità della disinformazione contemporanea. Ma è importante soprattutto perché qui vengono formulate due tesi dalle notevoli implicazioni geopolitiche, alla base della trattazione successiva: per un verso, «la manipolazione dell’informazione è diventata una forma strutturale di esercizio del potere», così normalizzata da «travalicare forme di stato e di governo e natura dei soggetti emittenti» (p. 24); per un altro, «i numerosi attori del sistema internazionale tenderanno a rivolgersi all’ecosistema informativo per ottenerne dei vantaggi nell’ambito delle loro strategie esterne. Conseguentemente, l’ecosistema produrrà effetti importanti sul SI e sugli attori che lo animano fino al punto di poter creare le condizioni per situazioni di conflitto» (p. 41).
Nel secondo capitolo, ricollegandosi alla distinzione di Joseph Nye tra soft power e hard power, Giusti ammette che lo statuto della disinformazione è destinato a rimanere problematico. Molteplici possono infatti essere le sue declinazioni, anche in base ai diversi attori che se ne servono. Esisterebbe una differenza di fondo tra regimi autoritari e democratici: mentre per i primi la guerra informativa è uno strumento ordinario, nei secondi, almeno in linea di principio, la disinformazione è considerata una pratica illegittima. Ma nella realtà dei fatti? Quale che sia la risposta, l’autrice sottolinea anche come, oltre a colpirsi a vicenda, gli Stati cerchino parimenti di neutralizzare gli attacchi informativi impedendo ai nemici di penetrare i propri ecosistemi nazionali: è la «securitizzazione della disinformazione» (p. 82).
Se la prima parte del saggio presenta un taglio soprattutto teorico, nella seconda vengono analizzati tre eventi di notevole rilievo storico che sarebbero stati in vario modo influenzati dalla disinformazione: l’invasione statunitense dell’Iraq nel 2003, la vittoria referendaria della Brexit nel 2016, l’invasione russa dell’Ucraina nel 2022.
Il terzo capitolo ruota intorno alla vicenda irachena. Giusti esordisce raccontando di come l’allora presidente Bush e il suo entourage manipolarono l’opinione pubblica al fine di persuaderla della necessità di un attacco preventivo contro il regime di Saddam Hussein. A questo fine, fecero credere che l’autocrate disponesse o fosse sul punto di disporre di armi di distruzione di massa. La disinformazione di Bush sarebbe stata, tuttavia, il precipitato di un bacino informativo inquinato alla fonte. In particolare, secondo un’ipotesi che l’autrice non sembra tuttavia sposare fino in fondo, le alte sfere di Washington sarebbero state vittime di «una sorta di autoinganno. In altre parole, avrebbero finito con il compiere una torsione della realtà verso qualcosa che non solo genuinamente sospettavano ma che poteva anche servire per giustificare un intervento militare che comunque era considerato di giovamento per la sicurezza internazionale» (p. 100).
Il quarto capitolo verte sulla decisione britannica di abbandonare l’Unione Europea. Agli occhi di Giusti, il referendum del 2016 appare un caso emblematico del rapporto tra disinformazione e politica estera non solo perché, in seguito alla Brexit, notevoli sarebbero state le conseguenze – oltre che per la Gran Bretagna – anche per i suoi partner commerciali europei e internazionali, ma perché la Russia avrebbe agito per condizionare l’esito elettorale. Se queste interferenze ci sono state, sottolinea l’autrice, rimane comunque difficile stabilire in che misura il Cremlino ne sia responsabile, e soprattutto fino a che punto siano state decisive.
Il quinto capitolo è tutto incentrato sulla Russia. In queste pagine, l’invasione dell’Ucraina diviene un prisma attraverso cui gettare luce sulla macchina disinformativa del Cremlino e più in generale sulle dinamiche geopolitiche post-sovietiche. Tanto nella dottrina quanto nella prassi russa, la disinformazione costituirebbe una risorsa strategica di primo piano, il cui «obiettivo principale non è semplicemente ridurre la necessità di dispiegare una forte potenza militare. L’obiettivo è, invece, quello di far sì che la popolazione militare e civile dell’avversario sostenga l’attaccante a scapito del proprio governo e del proprio Paese» (p. 158).
Si arriva così verso la conclusione del libro, in cui Giusti denuncia un grave limite del dibattito contemporaneo sulla disinformazione, reo di non comprendere la dimensione strutturale del fenomeno. Tra le conseguenze, «il fatto che siano soprattutto determinati Stati ad essere monitorati, mentre la disinformazione […] è uno strumento molto ampio e impiegato da una varietà di attori, ma soprattutto che le debolezze interne agli Stati non sono trascurabili perché diventano buoni punti di approdo per attacchi esterni» (p. 190).
Michele Gimondo è dottorando presso la Scuola di Dottorato in "Istituzioni e Politiche" dell'Università Cattolica del Sacro Cuore.