Luca G. Castellin
«Sono stato salvato da Dio per rendere di nuovo grande l’America». In questa frase, pronunciata con enfasi da Donald Trump nella Rotonda del Campidoglio, è molto probabilmente racchiuso il nucleo dell’azione politica del 47° Presidente degli Stati Uniti d’America. Al di là del ricordo dell’attentato del 13 luglio 2024, a Butler in Pennsylvania, l’intervento del tycoon newyorkese mostra infatti un evidente cambiamento di prospettiva rispetto a otto anni fa. Per molti versi, allora, come ha giustamente osservato Freddie Hayward su The New Statesman, il modo migliore di comprendere il significato più profondo del secondo discorso di insediamento è confrontarlo con il primo discorso di insediamento.
Il 20 gennaio 2017 Trump si era scagliato in maniera violenta contro la «carneficina americana» che la globalizzazione aveva prodotto sulla pelle dei cittadini americani, causando la distruzione delle piccole comunità e la deindustrializzazione di ampie zone degli Stati Uniti. «Gli americani», aveva tuonato, «vogliono grandi scuole per i propri figli, quartieri sicuri per le proprie famiglie e buoni posti di lavoro per se stessi». Di fronte a queste «richieste giuste e ragionevoli», invece, «per troppi dei nostri cittadini, esiste una realtà diversa»: «madri e bambini intrappolati nella povertà nei nostri centri urbani; fabbriche arrugginite sparse come lapidi nel paesaggio della nostra nazione; un sistema educativo pieno di denaro ma che lascia i nostri giovani e bellissimi studenti privati della conoscenza; e il crimine, le bande e le droghe che hanno rubato troppe vite e privato il nostro paese di così tanto potenziale non realizzato». «Questa carneficina americana», aveva promesso, rivolgendosi agli esclusi, agli emarginati, ai diseredati, «si ferma proprio qui e si ferma proprio ora». «Gli uomini e le donne dimenticati del nostro paese», aveva avvertito, «non saranno più dimenticati», perché «oggi non stiamo semplicemente trasferendo il potere da un’amministrazione all’altra, o da un partito all’altro, ma stiamo trasferendo il potere da Washington, D.C. e lo stiamo restituendo a voi, il popolo americano».
I temi cupi e oscuri del primo discorso di insediamento di Trump – forse, ispirato o addirittura scritto da Steve Bannon – erano pienamente nell’orizzonte retorico del populismo nazionalista di estrema destra. La (nuova) galassia MAGA, che aveva condotto in maniera inaspettata Trump al 1660 di Pennsylvania Avenue, cavalcava le tematiche della rabbia e del risentimento, mettendo al centro del suo messaggio le persone comune, la più o meno sfuggente figura dell’americano medio. Tanto che – in modo alquanto ironico – la retorica utilizzata da Trump non era così differente rispetto a quella del populismo di sinistra del socialista Bernie Sanders (o, persino, di Bane, il villain che si oppone al Batman ne Il cavaliere oscuro – Il ritorno di Christopher Nolan).
Il 20 gennaio 2025, soltanto otto anni dopo, tutto sembra cambiato. «L’età dell’oro», ha esordito con veemenza Trump, «dell’America inizia adesso». «Da questo giorno in poi», ha proseguito, «il nostro paese prospererà e sarà di nuovo rispettato in tutto il mondo. Saremo l’invidia di ogni nazione e non ci lasceremo più sfruttare da nessuno. […] E la nostra massima priorità sarà creare una nazione che sia orgogliosa, prospera e libera. L'America sarà presto più grande, più forte e molto più eccezionale di quanto non sia mai stata». «Torno alla presidenza», ha rivendicato con forza, «fiducioso e ottimista sul fatto che siamo all’inizio di una nuova entusiasmante era di successo nazionale». Una inversione di tendenza netta rispetto al primo discorso di insediamento, che molto probabilmente è dovuta non solo a una parziale riorganizzazione della magmatica galassia MAGA, ma anche e soprattutto all’ascesa di nuove alleanze d’interesse politico-economico.
Non è infatti sfuggita a nessuno la presenza a Washington dei più importanti esponenti della Silicon Valley (da Jeff Bezoz a Mark Zuckeberg, da Sundai Pichai a Tim Cook, da Sam Altman a – ovviamente – Elon Musk). La tecno-oligarchia ha fatto bella e sorridente mostra di se alle spalle di Trump, mischiata fra i famigliari del tycoon newyorkese. Dagli uomini e le donne dimenticate, Trump è passato così ad abbracciare i miliardari padroni dell’industria tecnologica. Non sono mancati alcuni brevi passaggi in sintonia con il populismo nazionalista (dazi, trivellazioni, riorganizzazione della filiera automobilistica), ma sono stati assai brevi, sicuramente attesi e poco incisivi.
Il ritorno dell’eccezionalismo americano è reso evidente dai temi al centro del secondo discorso di insediamento, che sono diventati più splendenti e ottimistici. «Il mio messaggio agli americani oggi», si è premurato di affermare Trump, «è che è tempo per noi di agire di nuovo con coraggio, vigore e la vitalità della più grande civiltà della storia». «Gli Stati Uniti», ha proseguito in maniera serrata, «torneranno a considerarsi una nazione in crescita, che accresce la nostra ricchezza, espande il nostro territorio, costruisce le nostre città, accresce le nostre aspettative e porta la nostra bandiera verso nuovi e bellissimi orizzonti».
È stata così apertamente richiamata la dottrina del «destino manifesto» degli Stati Uniti. Applaudito in maniera eloquente e scomposta da Elon Musk, nel proprio riferimento alla colonizzazione dello spazio, il tycoon newyorkese ha di fatto inaugurato una specie di tecno-futurismo. «E perseguiremo», ha ribadito, «il nostro destino manifesto verso le stelle, lanciando astronauti americani per piantare la bandiera a stelle e strisce sul pianeta Marte».
Sono passati soltanto otto anni. Eppure, dalle sue parole, Trump appare molto diverso. Sembra, infatti, aver abbandonato (almeno, in parte) la retorica del populismo nazionalista del «forgotten man» per abbracciare il credo del tecno-futurismo dei «billionaires» della Silicon Valley. Sembra aver sostituito l’isolazionismo con l’eccezionalismo. Dal 2017 al 2025, attraverso i suoi discorsi di insediamento, Trump è passato dal voler proteggere «gli uomini e le donne dimenticate», vittime della «carneficina americana», al voler «piantare la bandiera a stelle e strisce sul pianeta Marte».
Luca G. Castellin, membro del Comitato direttivo di Polidemos, è professore associato di Storia del pensiero politico presso la Facoltà di Scienze politiche e sociali dell’Università Cattolica del Sacro Cuore.